“Chi desidera muore; ma chi è morto
da sempre può concedersi l’indugio
di un desiderio che non osa desiderare”
(Salons)
“Un grado di più concentrata inesistenza” (Intervista
a Fedro): ecco lo scopo, posto che possa averne uno, di un morto!
Ma anche di un vivo: Fedro invidiava agli animali “il
pregio di non avere nome”, cosa purtroppo umanamente difficile:
“Vede, al nostro tempo molti volevano perdere il nome; ma non era
facile. Cercavano di lasciarlo per la strada, su un muricciolo, e subito
una guardia li denunciava per abbandono di nome…” (ibid.).
Può accadere che il nome sopravviva al suo provvisorio
affidatario: resta allora come un guscio di cicala. Come nel caso
celebre della rosa di Eco, allora, si trattasse anche del nostro,
“nomina nuda tenemus”.
A parte il nome, i morti stessi di sé ricordano
pochissimo: “se ho avuto moglie, l’ho dimenticata” (ibid.).
La cosiddetta vita del resto tende a correre (“La vita
tende a vivere e ciò è intollerabile”, Il delitto rende ma è
difficile, Comix 1997): impossibile farsene una qualche idea
precisa, impossibile esser“ci”: abbiamo avuto madri, sorelle,
fratelli? “Non crederà che in così poco tempo uno si possa fare
delle idee molto chiare, no?” (Intervista a Dickens).
Paradossale però la sorte dell’infante Tutankhamon, che
famoso per la sua tomba intonsa, solo “in quanto morto” ha
conseguito “il diritto di esistere”…
Ma, a pensarci, anche il ben più storico e solido califfo
di Bagdad arriva allo stesso punto: “Morendo, ho conseguito la
condizione che più mi era congeniale: ho deposto la carne imperfetta, e
sono diventato così simile a un fantasma, una figura di magia, che
talora comincio a riconoscermi” (Intervista a Harun al-Rashid).
Solo del Non-essere è l’eternità, e quel qualcosa di
arioso e musicale che chiamiamo felicità. La letteratura fa di queste
magalde: Sindibad è “viaggiatore ubiquitario ed eterno in quanto
inesistente”, e per questo il califfo di Bagdad lo invidia: perché
“sebbene nemmeno io esista, la nostra inesistenza è
inconfrontabile” (ibid.).