Cioran
li chiamò "esercizi di ammirazione":
azzardarne su Manganelli vuol dire
eccitarsi in un groviglio di imbarazzi.
E’
talmente acuto e divertente, che il meglio che
si possa fare è darne un po’ di esempi,
spalancare le virgolette e riempirle di
citazioni. E così arrendersi, mettersi in un
angolo e ascoltarlo ancora, funambolo
temerario e impaurito, in bilico sui suoi
baratri di parole:
voragini spalancate sul sacro, l’anima, la
scrittura, il nulla.
Il
bello è che, così abissale e scrupoloso, è
proprio divertente: se in Italia qualcuno ha
scritto battute da far gara con Billy Wilder e
Lubitsch, è stato Manganelli, con in
più la colpa di essere spaventosamente colto.
Ma perfino questa menda - avrebbe detto lui -
onerosa, non cancella il fatto:
Manganelli fa ridere, e il riso, come diceva
il dottor Freud del corpo, tradisce l’anima
e non mente mai.
E
veniamo al libro.
Con le Interviste Impossibili, finiamo
in una specie di Deserto dell’Attesa Vana e
cioè Perfetta: un posto alla Godot, ma più
– colore dantesco – “perso”, e,
appunto, più
comico. Tutti del resto vi ragionano come
Cappellai Matti.
Discendiamo – piccola e instabile
la sonda del “compagno segreto”,
navicella buona solo per perdersi! – ne
labirinto notturno, ariostesco e sconfinato di
una “fra le massime scritture del
Novecento” (Giorgio Agamben).
Chi
ha letto Manganelli, sa che quel posto ha
molti nomi: Palude, Inferno, Ombra, Menzogna,
Errore…
P.S.:
Possono
esserci dubbi che Manganelli abbia davvero
incontrato Fregoli, Dickens e il califfo di
Bagdad? Certamente, anzi, molti altri. Né
c’è da dubitare che Bosch sia un pittore
appena realista del mondo di Qua spalancato su
quello di Là. E viceversa: certe cose non
s’inventano.