“Voi puzzate che è una
meraviglia.”
(G. PARINI, Dialogo sopra la
nobiltà)
Qualcuno legge Parini? Avrà, se
gli va bene, un miliardesimo dei lettori delle
povere prose di un… fate voi. - Eppure, scegliendo
due per niente a caso, Arbasino e Zanzotto, c’è
ancora chi ama il poeta capace del più corrosivo
rococò!
Ma veniamo al dunque.
Mirabile prosetta quella del Dialogo
sopra la nobiltà del 1757! Dove due morti, o
per essere più precisi due cadaveri, parlano tra di
loro essendo costretti nella stessa marcescente
sepoltura.
Del dialogo ora ci interessa più
il contorno che il merito, dal messaggio
inappuntabilmente egualitario (a un nobile
boriosetto un poeta dice sul sangue le arterie e il
resto le stesse cose già ammirate nel Mercante
di Venezia: applausi umanitari sia per l’Abate
che per il Bardo).
A noi interessa la variante –
da cui perfino l’anarchico Manganelli rifugge –
di due defunti che possono parlarsi solo finché
dotati di cadavere. Nella precaria condizione di
salma, stadio presto perituro dell’entropia umana
nel suo trascolorare dall’essere al nulla, il
tempo della chiacchera oltetombale è quello che
occorre a topi e vermi per il ghiotto spolpamento
dei dialoganti:
“Or via, poiché qui non ci
resta altro che fare infino a tanto che questi vermi
abbiano finito di rosicarci, io voglio pur darti
retta…”
Come in un Beckett contaminato
dal gotico più imbarazzante, i due cadaveri
ciarlano giusto per ingannare il tempo della loro
disfazione: “Io non posso oggimai più dir
motto, conciossiaché i miei polmoni cominciano a
sdrucirsi, e la lingua a corrompersi”.
Nel dialogo gnomicamente
nobilitato di Parini, cerchiamo morbosi solo le
delizie macabre: “Io non so chi mi tenesse dal
batterti attraverso del ceffo questa trippa ch’ora
m’esce del bellico che infradicia”.
In fondo, il manganelliano
Edgard Allan Poe non ha inventato nulla.