Che Dio non abbia bisogno
dell’immortalità degli uomini per ogni Suo
spasso, si è sempre saputo. L’idea contraria, e
cioè che gli uomini possano sopravvivere, larve o lèmuri,
ombrìcole o licantropi, anche nel deserto di Dio,
è un pensiero un po’ più strano e – se la
parola vale – più “moderno”.
16 agosto 1824.
Il giovane conte Leopardi, nel
fiore febbrile dei suoi ventisei anni, inizia a
scrivere “Il dialogo di Federico Ruysh delle
sue mummie”: gli basterà una settimana.
Le mummie di Ruysch si
risvegliano una volta l’anno ma sempre senza
voglia: pigramente, in piena sleep inertia…
Il loro sabba è una gnagnera caotica, il pandemonio
querulo di morti ormai del tutto anonimi, dilavati
ormai da qualunque pretesa d’Identità:
esprimendosi appena in coro, per stupefazioni
attonite e in fondo un po’ sceme… Ed è già
questa una pigra fatica, un cincischiare per “Confusa
ricordanza”, per stenti stanchi: “Profonda
notte Nella confusa mente Il pensier grave oscura;
Alla speme, al desio, l’arido spirto Lena mancar
si sente…”.
Nel batter d’occhio di
cinquecento anni, il dialogo coi defunti è dunque
precipitato in una terra antipoda a quella di Dante,
dove proprio la Morte sigillava e faceva di diaspro
l’Identità.
Tra i morti di Leopardi, nessuno
ricorda niente. Da Mummia (e anche il celebre
Islandese forse lo diventò…), la vita è una
stupefatta amnesia: “Che fummo?…”.
Questo è già il mondo delle
interviste di Manganelli.