State
preparando il numero su Kafka ed è per me difficile scrivere
qualcosa, poiché quel grande si associa all'idea della scomparsa di
una persona cara, mio padre.
Nel
1990, per non so quale inesplicabile motivo, mi diedi ad una lettura
"furente" di Kafka, soprattutto dell'epistolario (le lettere
a Milena e la "lettera al padre").
Nella
memoria ne serbo un'immagine di una persona meno triste e cupa di
quanto l'aggettivo kafkiano comunemente suggerisce, una persona solo
consapevole del male che serpeggia nelle società, così
come già si andavano delineando nei primi anni del Novecento e di
ciò dava atto nei suoi racconti.
Certo,
si è trattato di uno scrittore profetico: nel momento in cui scriveva
il Processo, ad esempio, non si erano ancora delineati i totalitarismi
che colpivano persone, classi e popoli solo in virtù di una colpa
originale e, nel contempo, irredimibile:quella di esistere.
Sono,
questi tempi, kafkiani?
Malgrado
l'abuso dell'aggettivo, credo di no.
Sono
tempi vocianti, pletorici, tutto sommato cialtroni.
Mi
piace immaginare Kafka in un paradiso di scrittori variopinto e
colorato, insieme ad altri grandi tristi, veri o presunti.
Perdonate
se ho scritto qualche corbelleria, ma i libri di Kafka li ho sepolti
nei recessi meno raggiungibili della mia biblioteca e dal 1990 non ho
aperto più un libro del grande Franz.
Buona
sera
Roberto
Rossetti