C’è
una pagina molto divertente della “Vita di Henry Brulard”
dove Stendhal fa l’elenco delle sue letture adolescenziali. Ne
risalta il ruolo essenziale del padre: tutto quello che piaceva a
lui doveva essere brutto, e viceversa. Così, ciò che rese
definitivamente perfetta la sua scoperta di Shakespeare fu il fatto
che il padre gliene avesse parlato male.
Invece:
“Racine,
di continuo lodato dai miei, mi sembrava un ipocrita scipito. Il
nonno mi aveva raccontato l’aneddoto della sua morte, per non
esser più stato guardato da Luigi XIV. D’altronde i versi mi
infastidivano perché allungavano la frase, togliendole la
precisione. Aborrivo ‘corsiero’ invece di cavallo. Chiamavo
questo ipocrisia.
Vivendo
solitario in seno a una famiglia che parlava un linguaggio molto
scelto, come avrei potuto ascoltare il linguaggio più o meno
nobile? e dove prendere la lingua disadorna?
Corneille
mi dispiaceva meno. Gli autori che allora amavo fino alla follia
furono Cervantes, Don Chisciotte,
e l’Ariosto, tradotti. Subito dopo veniva Rousseau, che però
aveva un duplice difetto, draw-back,
lodare i preti e la religione ed essere lodato da mio padre. Mi
deliziavo nel leggere i Contes
di La Fontane, e Félicia,
che però non erano ‘piaceri letterari’. Sono libri che si
leggono da una mano sola, come diceva Mme ***.”
L’onnipresenza
sottotraccia, come un
tipo prezzemolo, di Rousseau in Stendhal è diversa da
quella, in realtà più importante, di Saint-Simon (“l’unico
storico che abbia avuto la Francia”). Mentre l’autore dei
“Memoires” fu per Stendhal “come gli spinaci” - un
piacere lungo una vita -, Rousseau fu alla lunga più importante che
gradevole. La colpa, come sempre, fu dello stile: “Solo chi
possiede un grande animo ha il coraggio di usare uno stile semplice;
è per questo che Rousseau ha messo tanta di quella retorica nella Nouvelle
Heloïse da renderla illeggibile a trent’anni” (“De
l’Amour”, Framm. 28).
Rousseau
aveva per Stendhal un altro paio di difettucci: parlava bene dei
preti, e piaceva a suo padre.