"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 2, gennaio 2003


Ogni scrittore, come ogni persona, ha le sue stelle d’orientamento, e a sua volta è stella (danzante?) per altri. Proviamo a segnalarne qualcuna

 

 

Per "L'Amore" di Stendhal:

 

 

11. Valéry o Calvino?

 

 

 

Uno...

Sul “meno sciocco degli autori celebri”, “il quasi-filosofo Stendhal”, Valéry scrisse un saggio, ora nella sua raccolta più famosa: “Varietà”.

Lo Stendhal che gli interessa è l’indagatore di sé, “l’egotista”. Valéry cerca come sempre il gelo dell’esattezza, e la fedeltà alle logica portata alle sue estreme sorprendenti conseguenze. E dunque: se conoscersi vuol dire “semplicemente prevedersi”,  prevedersi è possibile solo recitando “una parte”.

Come si vede, il sillogismo si fa subito contraddizione: il povero Pirandello in questo bicchier d’acqua si perse, ossessivamente.

 Conclude dunque Valéry, che aveva ben altre gatte estetiche e filosofiche da pelare: “L’Egotismo letterario consiste nel recitare la parte di ”, spacciando però la cosa come conoscenza integrale e non mediata. 

Velenoso e imperturbabile, riconosce anche negli egotismi di Stendhal la scorciatoia romantica, il trucco dell’artista che - in mancanza di meglio! - fa di se stesso il suo personaggio. In questo gioco, inaugurato da Rousseau con le “Confessioni”, si finisce sempre con l’esibire “le pudenda”; soprattutto, ci si ritrova a far coincidere la propria vita con una certa idea di sé, idea inquinata e irrigidita proprio da quell’equivoco di sé che è la convinzione di essere sinceri. Jung avrebbe tutto da dire su questa dinamica dell’Io furbastro. 

Ma torniamo a Valéry: il cosiddetto “conoscersi” è insomma sempre una forma di donchisciottismo: vivere credendo non di essere un paladino di re Artù, ma addirittura se stessi! Abbaglio, errore marchiano, perdonabile tutt’al più a un adolescente.

Il sospetto è che, di fronte a queste finezze, Stendhal avrebbe detto “Ma questo è Chateaubriand!”: i libri egotisti di Stendhal infatti non finiscono mai in una qualche conoscenza di sé, ma - alla lettera - in niente: sono libri che non finiscono, che non arrivano da nessuna parte, in cui le solite domande sul sé – sono buono? cattivo? ho talento? ecc. – non ricevono mai uno straccio di risposta. – Qualcosa del genere sostiene Italo Calvino.

Il sospetto è che Stendhal, proprio per avere all’inizio creduto il contrario, avrebbe alla fine scritto, con Valéry, che “in letteratura, il vero è inconcepibile”

 

***

...e due 

Mentre Valéry ricaccia Stendhal nelle romanticherie del secolo di Rousseau e della torre Eiffel, Calvino lo legge come uno scrittore da fisica quantistica: 

“Diciamo dunque che la realtà di cui Stendhal vuol fondare la conoscenza è puntiforme, discontinua, instabile, un pulviscolo di fenomeni non omogenei, isolati gli uni dagli altri, suddivisibili a loro volta in fenomeni ancor più minuti.”

“Lo Stendhal autobiografico cerca di cogliere l’essenza della propria vita, della propria singolarità individuale nell’accumularsi di fatti inessenziali, senza direzione e senza forma. Condurre una simile esplorazione d’una vita finisce per diventare proprio il contrario di ciò che s’intende per narrare.”

“Proprio perché l’esistenza è dominata dall’entropia, dalla dissoluzione in istanti e impulsi come corpuscoli senza nesso né forma, egli vuole che l’individuo si realizzi secondo un principio di conservazione dell’energia, o meglio di riproduzione continua di cariche energiche. Imperativo tanto più rigoroso quanto più egli è vicino a comprendere che l’entropia sarà comunque alla fine la trionfatrice, e dell’universo con tutte le sue galassie non resterà che un vorticare d’atomi nel vuoto.”

 

 

 

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