Uno...
Sul
“meno sciocco degli autori celebri”, “il quasi-filosofo
Stendhal”, Valéry scrisse un saggio, ora nella sua raccolta più
famosa: “Varietà”.
Lo
Stendhal che gli interessa è l’indagatore di sé,
“l’egotista”. Valéry cerca come sempre il gelo
dell’esattezza, e la fedeltà alle logica portata alle sue estreme
sorprendenti conseguenze. E dunque: se conoscersi vuol dire
“semplicemente prevedersi”,
prevedersi è possibile solo recitando “una parte”.
Come
si vede, il sillogismo si fa subito contraddizione: il povero
Pirandello in questo bicchier d’acqua si perse, ossessivamente.
Conclude
dunque Valéry, che aveva ben altre gatte estetiche e filosofiche da
pelare: “L’Egotismo letterario consiste nel recitare la parte di
sé”, spacciando però la cosa come conoscenza integrale e
non mediata.
Velenoso
e imperturbabile, riconosce anche negli egotismi di Stendhal la
scorciatoia romantica, il trucco dell’artista che - in mancanza di
meglio! - fa di se stesso il suo personaggio. In questo gioco,
inaugurato da Rousseau con le “Confessioni”, si finisce
sempre con l’esibire “le pudenda”; soprattutto, ci si
ritrova a far coincidere la propria vita con una certa idea di sé,
idea inquinata e irrigidita proprio da quell’equivoco di sé che
è la convinzione di essere sinceri. Jung avrebbe tutto da dire su
questa dinamica dell’Io furbastro.
Ma
torniamo a Valéry: il cosiddetto “conoscersi” è insomma sempre
una forma di donchisciottismo: vivere credendo non di essere un
paladino di re Artù, ma addirittura se stessi! Abbaglio, errore
marchiano, perdonabile tutt’al più a un adolescente.
Il
sospetto è che, di fronte a queste finezze, Stendhal avrebbe detto
“Ma questo è Chateaubriand!”: i libri egotisti di Stendhal
infatti non finiscono mai in una qualche conoscenza di sé, ma -
alla lettera - in niente: sono libri che non finiscono, che non
arrivano da nessuna parte, in cui le solite domande sul sé – sono
buono? cattivo? ho talento? ecc. – non ricevono mai uno straccio
di risposta. – Qualcosa del genere sostiene Italo Calvino.
Il
sospetto è che Stendhal, proprio per avere all’inizio creduto il
contrario, avrebbe alla fine scritto, con Valéry, che “in
letteratura, il vero è inconcepibile”.
***
...e
due
Mentre
Valéry ricaccia Stendhal nelle romanticherie del secolo di Rousseau
e della torre Eiffel, Calvino lo legge come uno scrittore da fisica
quantistica:
“Diciamo
dunque che la realtà di cui Stendhal vuol fondare la conoscenza è
puntiforme, discontinua, instabile, un pulviscolo di fenomeni non
omogenei, isolati gli uni dagli altri, suddivisibili a loro volta in
fenomeni ancor più minuti.”
“Lo
Stendhal autobiografico cerca di cogliere l’essenza della propria
vita, della propria singolarità individuale nell’accumularsi di
fatti inessenziali, senza direzione e senza forma. Condurre una
simile esplorazione d’una vita finisce per diventare proprio il
contrario di ciò che s’intende per narrare.”
…
“Proprio
perché l’esistenza è dominata dall’entropia, dalla
dissoluzione in istanti e impulsi come corpuscoli senza nesso né
forma, egli vuole che l’individuo si realizzi secondo un principio
di conservazione dell’energia, o meglio di riproduzione continua
di cariche energiche. Imperativo tanto più rigoroso quanto più
egli è vicino a comprendere che l’entropia sarà comunque alla
fine la trionfatrice, e dell’universo con tutte le sue galassie
non resterà che un vorticare d’atomi nel vuoto.”