“Ramayana.
Un
vecchio saggio, che a furia di diventare vecchio e di diventare saggio
ridiventò una scimmia, gli disse: Amare vuol dire non fare tante
storie!” (Quaderni, vol. V)
Se
leggi anche solo il quinto volume dei Quaderni,
vedi che per Valéry la libertà
coincide – come per Cavalcanti –
col controllo, e dunque col potere su di sé. – Rispetto all’amore,
qui si leggerà il riconoscimento scandalizzato d’un’impotenza, lo
scacco d’una volontà che s’era prefissa obiettivi ardui e astratti e
che conosce invece il dolore del desiderio mortale.
Come
tutti i calunniatori intelligentissimi, Valéry
fa facilmente centro. - Anche se, Che
disastro, Monsieur Teste!… questa ricerca della lobotomìa
sentimentale perfetta, il senza cuore e tutto cervello, come se fosse
davvero il Graal dell’esistenza!…
...qui
sprofondi in pagine e pagine in cui ci ti contamini con una versione
ancora più raggelata di Cartesio
geometra dell’universo: tutto l’abnorme
mondo dei sentimenti osservato come “res extensa”,
stanghette fraudolente di un meccano refrattario! - Insomma: lo stesso
tentativo, ma più rigoroso nel – stupendo fallimento! – de
l’Amour di Stendhal!
Amore:
“Il nemico”… “uccidere il nemico dentro di sé” (Ib.)!
– Al suo posto mettere “la chiarezza”; o almeno lottare per un amore
fraterno alla chiarezza, il che è un bel koan: “Ma è possibile
amarsi con chiarezza?”; e
“che cosa ha a che fare il desiderio con la chiarezza?” (Ib.).
Il
Quinto Volume dei Quaderni
è un disperato campo di battaglia -
il rimuginìo mentale di una sconfitta mai accettata, solo
elaborata. - Schopenhauer avrebbe di
che sghignazzare in questa Waterloo sconfinata dell’intelligenza
surclassata dalla Volontà: “Le passioni si nutrono di cliché”;
“L’amore è un’invenzione – come è un’invenzione l’alcol”;
“L’amore è una voglia di ricominciare: dunque, niente affatto
nobile”; “Può darsi che non ci furono amori, ma malintesi”; “una
delle deviazioni nell’inutile che caratterizza l’homo”, ecc…
Tutto
questo lo trovi, ma raramente, quintessenziato anche negli scritti
pubblici.
Perfettamente,
ad esempio, qui: “L’amore arcaico, quale appare nella maggior parte
dei miti, manifesta soltanto una «forza della natura», subìta e
riconosciuta come tale. Il suo concludersi non è affatto l’esaltazione
dell’unione più intima possibile dell’Unico con l’Unica, al di là,
attraverso e al di sopra del più vivo e reciproco fremito carnale: è
soltanto il puro e semplice choc della voluttà, giacché alla
natura serve solo un istante. In un amore del genere, ogni deviazione dal
polo del piacere è contro natura” (Varietà).
Amore:
pare che non esista niente di più adatto per manifestare all’anima
quanto sia “stupida”. Ciò che può scrivere queste cose
è quanto - appunto - d’un’anima sopravvive a una sua morte
essenziale: “Abito in una conchiglia che è stata me” (Quaderni,
vol. V), il che ricorda tanto proprio l’automa
cavalcantiano dell’uomo colpito da Amore: Io
vo come colui ch’è fuor di vita…
Hybris
e donchisciottismo: credere nella mente, e che in lei sia la salvezza!
- Come gli adolescenti nel fulgore della loro supponenza, soprattutto qui Valéry
pare non conoscere il pudore dei pensieri – ma crede che il loro compito
sia tendersi fino al massimo della coerenza e della consequenzialità. -
Da ciò piaceri appena narcisisti.
E
infatti scrive, e prova allora a confutare l’amore come se
l’amore fosse un’Idea; oppure lo offende, accusandolo di non
essere un’Idea…
Sembra
sempre Cavalcanti: quello che resta,
quando l’amore-dolore
dilaga, è la contemplazione attonita di “come si dilegua la coscienza
davanti all’incomprensibile” (Ib.).
E
invece “ogni sentimento deve essere dominato” (Ib.).
– Foss’anche... ma per vendetta Valéry aggiunge che, dove non c’è
più controllo non c’è più verità! E questo è un salto,
anche al cospetto della più fredda e formale delle logiche.
(Arriva
a negarne la verità anche quando è disilluso: “L’amore è al livello
più grave quando sopravvive alle illusioni” (Ib.)…).
Valéry
ferito d’amore non riconosce la verità indifferenziata e pulsionale del
sacro. In particolare di quel sacro primigenio che in Occidente abbiamo
attribuito a Dioniso, Eros, Afrodite...
La
vendetta contro Eros si perpetua su tutta la linea. Quando Valéry parla
direttamente di sesso, descrive coiti ben più repellenti di quelli di Kafka.
Però,
leggi anche che “essere profondamente amati, è il massimo che ci sia al
mondo. Fu questa l’impossibile mira di Dio” (Ib.);
e che “Vale di più essere amati che essere compresi. Giacché non si è
mai compresi bene, mentre si può essere amati. Se ne vuoi una prova,
pensa a Dio. Si è premunito dall’essere compreso, ha orrore che
qualcuno abbia questo progetto. Lo maledice, lo colpisce… ma chiede che
lo si ami. E’ una lezione per tutti” (Ib.).
Meraviglioso,
infine, questo atollo di pace, nel cuore del ciclone, nel centro vuoto e
silente di ogni possibile cosa:
“Nel
pieno della collera folle, passa un raggio di me ne infischio. Al
cospetto di Dio, nel più alto dei cieli, c’è un desiderio di
fumare, una voglia di dormire in pace, un gusto delle cose, che è
libertà” (Ib.).