AMLETO - Sanguediddio, mi credete più facile a suonarsi d'un piffero?
(Atto III, sc. 1)
«Il mondo, come il libro che
Amleto ha in mano quando Polonio va a sondarlo (II, 2),
non è più un testo coerente, ma un insieme esploso (cosa
legge? Qual è il senso di quel che legge? «Words, words, words»,
risponde a Polonio). La fuga dal centro si origina da questo collasso
del mondo come testo. Anche se come testo Amleto cerca più volte, nei
suoi monologhi, di recuperarlo per potersi rappresentare (come attore
della sua storia, alla fine II.2, o come eroe del proprio
destino, in IV.4). Perciò egli sta sulla soglia,
in una vertigine epistemologica.
L’opera è senza centro, proprio
perché è intrinsecamente polifonica, e quindi senza soluzione univoca.
Così la definiva
August Wilhelm von
Schlegel: «Un’opera enigmatica che somiglia a quelle
equazioni irrazionali in cui sempre rimane una frazione di grandezza
sconosciuta che non ammette soluzione alcuna» (Über dramatishce
Kunst und Literatur, 1809-11). E ai nostri tempi, così la
riguarda Kott: «E’ il dramma più strano che si mai stato
scritto; proprio per le sue lacune, proprio per quel tanto di
indefinito che contiene» (I. Kott, Shakespeare nostro
contemporaneo, Milano 1964). E Starobinski,
interrogandosi, sulle tracce di Freud, sul “dietro” di Amleto,
sul segreto che lo fonda, ne coglie lo stesso “vuoto”: «Lo spettatore
o il lettore ha l’impressione di una lacuna e si domanda persino se
l’autore non abbia avuto la deliberata intenzione di scrivere un
dramma il cui effetto tragico fosse legato alla rappresentazione
di un universo – cosmico, politico, psicologico – squarciato da
lacune. Il dramma di Shakespeare, infatti, contemporaneo di
un’epoca in cui scompare l’immagine tradizionale del cosmo, vede la
luce nel momento in cui la soggettività comincia a gettare le basi del
suo regno separato e aprioristicamente inaccessibile» (J.
Starobinski, L’occhio del vivente, Torino 1975).»
(A. Serpieri, Polifonia
shakespeariana, Roma 2002)