AMLETO - Il mio taccuino. È giusto che vi scriva che un uomo può
sorridere, e sorridere, ed essere una canaglia.
(Atto I, sc. 5)
Visto il fantasma, Amleto come si è
appena letto, prima di tutto scrive. Che senta più sua la penna che la
spada, sarà evidente per tutto il dramma, e che alla fine muoia dopo
almeno un’ottima prestazione spadaccina ci conforta più di qualunque
suo distico. Così anche la trappola che appresta per acchiappare la
coscienza del re (ultima frase dell’Atto II) è un congegno di
parole: la tragedia dell’Assassinio di Gonzago
corretta da un po’ di versi suoi aggiunti alla bisogna. Della qual
cosa, oltre ogni misura si vanterà.
«Ferito
daino, ebben, che pianga
e scherzi io
cervo mondo.
Non
varrebbero questi versi, messere, insieme con una foresta di penne, e
due rose damaschine sulle mie scarpe traforate, o ottenermi, se le
altre mie fortune mi rinnegassero, una compartecipazione in un branco
d’attori?»
(Atto III,
sc. 2)
De gustibus.
Savinio (Nuova
enciclopedia,
Milano 1978)
notò già che i più nefasti tra gli artisti falliti, alla fine, si
danno alla
politica: evidente tentazione entropica, essendo più malleabili le
folle che le pagine bianche. Già Alfieri, ma con piglio serio
da preromanticismo europeo, riconosceva tra Tiranno e Poeta il gioco
ambiguo e inscindibile di un Doppio. Facile che Amleto,
popolarissimo tra le masse
danesi, non avrebbe avuto scampo: se la vita gli avesse concesso la
grazia, si sarebbe rivelato una pessima penna e un buon principe:
accoppiata tra le più favorevoli che i governati si possano augurare.
Quello che si
sa è che i versi che aggiunge velenosamente all’Assassinio
di Gonzago
non c’è modo di riconoscerli dagli altri. Trattasi di un dramma «scritto in distici rimati
[che]
riproduce, nella sintassi e nelle immagini, un tipo di linguaggio
tragico di qualche decennio prima. Si tratta forse di una mimesi
parodica – Shakespeare non poteva non divertirsi nell’imitare la
scrittura drammatica della generazione precedente o gli stilemi della
più gonfia tradizione epica (come nel racconto della morte di prima in
II.2) -, ma va comunque tenuto presente che i contenuti
veicolati sono seri e del tutto pertinenti al dramma in cui sono
inseriti con funzione di rispecchiamento. La chiave forse sta proprio
qui: la tragedia si guarda nello specchio di un’altra
scrittura tragica (il rispecchiamento non potrebbe avvenire in una
scrittura identica) che pur deformandola, la rivela. La parodia è allora una
funzione del tragico, una funzione della sua riproduzione simulata e
non un semplice
divertissement
decontestualizzato» (A. Serpieri, note a
Amleto,
Venezia 1997).
E infatti,
notiamo noi, nella tragedia c’è tal quale il sugo dell’essere
o non essere, che proviamo a tradurre per le rime:
Sol schiava del ricordo è la promessa:
nascita ha violenta, ma ratta cessa.
E se, frutto acerbo, sul ramo sta
quando si fa maturo da sol cadrà.
E’ inevitabil che dimentichiamo
di pagare a noi ciò che ci dobbiamo.
Ciò che nella passione si propone,
disperso il voto, spegne la passione.
Gioia e dolore, nate violente,
Nello sfogarsi, di sé fanno niente.
Come si vede, e a ennesima riprova
che il contenuto in letteratura è niente, se queste sono righe di
Amleto (ché certo è suo il mare d’angoscia tra il dire e il fare),
molto meglio quando improvvisa tra sé e sé l’essere o non essere
di quando si mette in posa e ne ordina il senso per distici baciati.
Però è un ottimo regista («Ti prego, recita la battuta come te l'ho
detta io, agile sulla lingua.» Atto III, sc. 2). Varrà per
Amleto quello che Wilde diceva di se stesso, di aver dato alla
vita il genio e alla letteratura solo il talento, qui
però davvero deboluccio?
Il nostro giudizio micragnoso gli
riconosce non più di una certa vocazione autentica per
l’improvvisazione e la cattiveria: il suo capolavoro è il biglietto
con cui annuncia al Re il suo ritorno improvviso dal viaggio in
Inghilterra. Inizia con un’antitesi certo sarcastica: «Alto e
possente, voi dovete sapere ch’io son deposto ignudo sul vostro
reame»: notare intanto il vostro reame. Più bello di tutti però
il post scriptum: «solo».