"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 13 settembre 2007

 


 

n. 13 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 13

 

 

 

31. Ghost writer

 

 

 


 

AMLETO - Il mio taccuino. È giusto che vi scriva che un uomo può sorridere, e sorridere, ed essere una canaglia.

(Atto I, sc. 5)

 

 

Visto il fantasma, Amleto come si è appena letto, prima di tutto scrive. Che senta più sua la penna che la spada, sarà evidente per tutto il dramma, e che alla fine muoia dopo almeno un’ottima prestazione spadaccina ci conforta più di qualunque suo distico. Così anche la trappola che appresta per acchiappare la coscienza del re (ultima frase dell’Atto II) è un congegno di parole: la tragedia dell’Assassinio di Gonzago corretta da un po’ di versi suoi aggiunti alla bisogna. Della qual cosa, oltre ogni misura si vanterà.

 

«Ferito daino, ebben, che pianga

e scherzi io cervo mondo.

Non varrebbero questi versi, messere, insieme con una foresta di penne, e due rose damaschine sulle mie scarpe traforate, o ottenermi, se le altre mie fortune mi rinnegassero, una compartecipazione in un branco d’attori?»

(Atto III,  sc. 2)

 

De gustibus. Savinio (Nuova enciclopedia, Milano 1978) notò già che i più nefasti tra gli artisti falliti, alla fine, si danno alla politica: evidente tentazione entropica, essendo più malleabili le folle che le pagine bianche. Già Alfieri, ma con piglio serio da preromanticismo europeo, riconosceva tra Tiranno e Poeta il gioco ambiguo e inscindibile di un Doppio. Facile che Amleto, popolarissimo tra le masse danesi, non avrebbe avuto scampo: se la vita gli avesse concesso la grazia, si sarebbe rivelato una pessima penna e un buon principe: accoppiata tra le più favorevoli che i governati si possano augurare.

 

 

Quello che si sa è che i versi che aggiunge velenosamente all’Assassinio di Gonzago non c’è modo di riconoscerli dagli altri. Trattasi di un dramma «scritto in distici rimati [che] riproduce, nella sintassi e nelle immagini, un tipo di linguaggio tragico di qualche decennio prima. Si tratta forse di una mimesi parodica – Shakespeare non poteva non divertirsi nell’imitare la scrittura drammatica della generazione precedente o gli stilemi della più gonfia tradizione epica (come nel racconto della morte di prima in II.2) -, ma va comunque tenuto presente che i contenuti veicolati sono seri e del tutto pertinenti al dramma in cui sono inseriti con funzione di rispecchiamento. La chiave forse sta proprio qui: la tragedia si guarda nello specchio di un’altra scrittura tragica (il rispecchiamento non potrebbe avvenire in una scrittura identica) che pur deformandola, la rivela. La parodia è allora una funzione del tragico, una funzione della sua riproduzione simulata e non un semplice divertissement decontestualizzato» (A. Serpieri, note a Amleto, Venezia 1997).

 

E infatti, notiamo noi, nella tragedia c’è tal quale il sugo dellessere o non essere, che proviamo a tradurre per le rime:

 

Sol schiava del ricordo è la promessa:

nascita ha violenta, ma ratta cessa.

 

E se, frutto acerbo, sul ramo sta

quando si fa maturo da sol cadrà.

 

E’ inevitabil che dimentichiamo

di pagare a noi ciò che ci dobbiamo.

 

Ciò che nella passione si propone,

disperso il voto, spegne la passione.

 

Gioia e dolore, nate violente,

Nello sfogarsi, di sé fanno niente.

 

 

Come si vede, e a ennesima riprova che il contenuto in letteratura è niente, se queste sono righe di Amleto (ché certo è suo il mare d’angoscia tra il dire e il fare), molto meglio quando improvvisa tra sé e sé l’essere o non essere di quando si mette in posa e ne ordina il senso per distici baciati. Però è un ottimo regista («Ti prego, recita la battuta come te l'ho detta io, agile sulla lingua.» Atto III, sc. 2). Varrà per Amleto quello che Wilde diceva di se stesso, di aver dato alla vita il genio e alla letteratura solo il talento, qui però davvero deboluccio?

 

 

 

Il nostro giudizio micragnoso gli riconosce non più di una certa vocazione autentica per l’improvvisazione e la cattiveria: il suo capolavoro è il biglietto con cui annuncia al Re il  suo ritorno improvviso dal viaggio in Inghilterra. Inizia con un’antitesi certo sarcastica: «Alto e possente, voi dovete sapere ch’io son deposto ignudo sul vostro reame»: notare intanto il vostro reame. Più bello di tutti però il post scriptum: «solo».


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