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SETTEMBRE 2007 NUMERO DOPPIO 12 & 13 Amleto & altri Amleti
Collegamenti alle sezioni del n. 12:
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To be or not to be
(Amleto, atto III, scena I)
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Essere o non essere; questo è il problema: se sia più nobile all’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro mare di triboli e combattendo disperderli. Morire: dormire; nulla più: - e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne, è soluzione da accogliere a mani giunte. Morire – dormire – sognare, forse: ma qui è l’ostacolo: perché, quali sogni possano assalirci in quel sonno di morte – quando siamo già sdipanati dal groviglio mortale – ci trattiene: è la remora, questa, che di tanto prolunga la vita ai nostri tormenti. Chi vorrebbe, se no, sopportar le frustate e gl’insulti del tempo, le angherie del tiranno, il disprezzo dell’uomo borioso, le angosce dell’amore respinto, gli indugi della legge, l’oltracotanza dei grandi, i calci in faccia che il merito paziente riceve dai mediocri, quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto con due dita di pugnale? Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudando sotto il peso di tutta una vita stracca, se non fosse il timore di qualche cosa, dopo la morte – la terra inesplorata donde mai non tornò alcun viaggiatore – a sgomentare la nostra volontà e a persuaderci di sopportare i nostri mali piuttosto che correre in cerca d’altri che non conosciamo? Così ci fa vigliacchi la coscienza; così l’incarnato naturale della determinazione si scolora al cospetto del pallido pensiero. E così imprese di grande importanza e rilievo sono distratte dal loro naturale corso: e dell’azione perdono anche il nome. (Cesare Vico Ludovici, Einaudi, Torino 1983) |
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Essere o non essere – questa è la domanda. Se è più nobile per la mente sopportare Le sassate e le frecce dell’oltraggiosa fortuna O prendere le armi contro un mare di guai E, combattendo, finirli. Morire, dormire – Nient’altro – e con un sonno dire che poniamo Fine al male del cuore e ai mille Travagli maturali di cui la carne è erede. Questa è consumazione da desiderare devotamente. Morire, dormire – dormire, forse sognare. Ah, qui è l’intoppo. Perché in quel sonno Di morte quali sogni possano venire quando ci siamo liberati Di questo grovigli mortal, è cosa Che deve farci meditare. E’ questo il pensiero Che dà alla sofferenza una vita così lunga. Chi sopporterebbe la frusta e l’ingiuria del tempo, I torti dell’oppressore, le contumelie Del superbo, i dolori dell’amore disprezzato, I ritardi della giustizia, l’insolenza del potere E il disprezzo che il merito paziente riceve Dagli indegni, quando lui steso potrebbe Darsi quietanza con un nudo pugnale? Chi porterebbe fardelli, grugnendo E sudando sotto il peso della vita, se non fosse Che la paura di qualcosa dopo la morte, La terra inesplorata dai cui confini Non torna il viaggiatore, paralizza la volontà E ci fa sopportare i mali che abbiamo Piuttosto che fuggire verso quelli Che non conosciamo? Così la coscienza Ci rende tutti codardi, e così La tinta naturale della risolutezza E’ resa livida dalla pallida impronta Del pensiero, e imprese di grande Portata e momento mutano per questo Il loro corso e perdono il nome Di azione.
(Agostino Lombardo, Feltrinelli, Milano, 2006) |
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Essere o non essere? Questo è il punto: è più degno che l’animo sopporti sassi e frecce con cui infama fortuna, o, armati contro un mare di guai, opporsi e finirla? Morire – dormire, Nient’altro, e dire basta con quel sonno allo scempio del cuore e ai mille strazi inscritti nella carne: è un finirsi da implorare. Morire, dormire; dormire – sognare? – oh, quest’è l’incaglio: che sogno verrà nel sonno da morti, quando saremo disciolti dal nodo letale? - Qui ci si ferma: è il dubbio che tanto allunga le nostre disgrazie. Chi si rassegna alla frusta e agli scorni del tempo, ai torti dei tiranni, all’onta del superbo, all’angoscia dell’amore schifato, le lenturie della legge, l’insolenza degli uffici, gli scherni dei mediocri al merito tenace, quando da solo può saldare il conto un facile pugnale? Chi acconsente a sbavare e sudare sotto il peso della VITA, se non per il terrore di chissà che dopo la morte: terra mai scoperta, senza nessun ritorno, che ci annulla il volere e aggrappa ai mali che ora abbiamo, per non volare ad altri di cui ignoriamo tutto? Ecco come il sapere ci fa tutti vigliacchi: il colore nascente della scelta sotto l’ombra smorta del pensïero si fa viola, e grandi imprese per questo sguardo si svìano dal loro corso e perdono il nome di azione.
(fc, per il compagno segreto, Trieste 2007)
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Essere o non essere, è questo che mi chiedo: se è più grande l’animo che sopporta i colpi di fionda e i dardi della fortuna insensata, o quello che si arma contro un mare di guai e opponendosi li annienta. Morire… dormire, null’altro. E con quel sonno mettere fine allo strazio del cuore e ai mille traumi che la carne eredita: è un consummatum da invocare a mani giunte. Morire, dormire, - dormire, sognare forse – ah, qui è l’incaglio: perché nel sonno della morte quali sogni possono venire, quando ci siamo districati da questo groviglio funesto, è la domanda che ci ferma – ed è questo il dubbio che dà una vita così lunga alla nostra sciagura. Perché, chi sopporterebbe le frustate e le ingiurie del tempo, il torto dell’oppressore, l’oltraggio del superbo, le angosce dell’amore disprezzato, le lentezze della legge, l’insolenza delle autorità, e le umiliazioni che il merito paziente riceve dagli indegni, quando da sé, potrebbe darsi quietanza con un semplice colpo di punta? Chi accetterebbe di accollarsi quelle some, e grugnire e sudare sotto il peso della vita, se non fosse il terrore di qualcosa dopo la morte, la terra sconosciuta da dove non torna mai nessuno, a paralizzarci la volontà, a farci preferire i mali che abbiamo ad altri di cui non sappiamo niente? Così la coscienza ci rende codardi, tutti e così il colore naturale della risolutezza s’illividisce all’ombra pallida del pensiero e imprese di gran rilievo e momento per questo si sviano dal loro corso e perdono il nome di azioni.
(Nemi D’Agostino, Garzanti, Milano, 1993)
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Essere o non essere, questa è la domanda: se sia più nobile per la mente sopportare i sassi e le frecce della oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e contrastandoli, finirli. Morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire fine alla stretta del cuore e ai mille tumulti naturali che eredita la carne: è una consumazione da desiderare devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare. Ah, qui è l’intoppo. Perché, in quel sonno di morte, quali sogni Possano venire, dopo che ci siamo cavati Di dosso questo groviglio mortale, deve farci esitare. Ecco il motivo che dà alla sventura così lunga vita. Perché chi sopporterebbe le frustate e gli insulti Del tempo, il torto degli oppressori, l’offesa degli arroganti, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e gli insulti che il merito paziente riceve dagli indegni, quando da solo potrebbe darsi quietanza con un semplice stilo? Chi vorrebbe portare pesi, imprecare e sudare sotto una faticosa vita, se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte, il paese inesplorato dal cui confine nessun viaggiatore ritorna, sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che volare ad altri che non conosciamo? Così la coscienza ci rende codardi tutti, e così il colore naturale della risolutezza è contagiato dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e momento, per questa causa, deviano dal loro corso e perdono il nome di azione.
(Alessandro Serpieri, Marsilio, Venezia 2003) |
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