AMLETO - Ah che somaro che sono! Bel coraggio per il figlio d'un caro
padre assassinato, spinto alla vendetta dalla terra e dal cielo,
sgravarsi il petto a parole come una baldracca, darsi a bestemmiare
come una puttana, come una sguattera!
(Atto II, sc. 2)
In tutto Racine trovi meno di
duemila parole; in Shakespeare più di ventunmila.
«Hamlet ne dice oltre undicimila»
(G.
Melchiori, Shakespeare, Roma-Bari, 2005).
E da sempre le compagnie applicano al testo la cura di «Signora
Forbice» (K. Branagh, Nel bel mezzo di un gelido inverno,
1995).
Ma perché poi tante? «Amleto parla
molte voci: eroe, folle, sano, codardo, con un possesso formidabile
delle figure retoriche dell’equivoco» (A. Serpieri, Retorica e
immaginario, Parma 1986).
Eliot, tutt’altro che incantato, nella logorrea del principe sente
soprattutto il patologico: «L’incostanza di Amleto, le sue ripetizioni
di frase, i suoi bisticci, non sono parte di un piano voluto di
dissimulazione, ma una forma di sollievo emotivo.» (T. S. Eliot,
Amleto e i suoi problemi, 1919, in Il bosco sacro, Milano
2003).
Il significato
è un sasso sputato dalla bocca delle circostanze. E’ vero che più che
parlante
«l’uomo è
parlato» (J. Lacan,
Il Seminario. L’Io nella teoria di
Freud e nella tecnica della psicoanalisi,
Torino 1991),
ma non dall’inconscio: piuttosto dall’anonimia della maschera è in
quel momento. Non dal buco nero delle pulsioni, e tanto meno da un
qualche dentro
moralmente ispirato. Gli uomini sputano parole dettate da rapporti di
forza e circostanze (e dietro al blablà
niente).
Un esempio sui
mille in Amleto:
il Re, per incitare Laerte a uccidergli il nipote, dice: «la vendetta
non dovrebbe avere alcun confine» (Atto IV, sc. 7):
proprio lui, l’assassino di suo fratello. Quella frase la
sottoscriverebbe pari pari Amleto (il che nel dramma accade per molte
frasi: frasi buone per tutti!);
oppure ad Amleto potrebbe suggerirla quella specie di Super-io ch’è lo
Spettro, proprio per giustificare l’assassinio del Re che ora la
piazza nelle orecchie del già infoiato Laerte.
Tutti i
discorsi sono bell’e pronti da sempre: piangiamo lacrime già mille
volte profuse. Giubili e lai, come gli ordigni sul muro dell’officina
del meccanico, son già pronti per tutti i possibili stati del cuore:
nessuna sincerità che non possa star dentro la grammatica delle frasi
fatte. Poi, certo, c’è chi maneggerà meglio il retoricame. Ma son
davvero vere differenze?
I personaggi di
Shakespeare sanno fare tutto quanto è umanamente ammesso col
linguaggio, compreso bestemmiare le troppo facili parole. Praticandole
da virtuosi, ne conoscono la cialtroneria, la velenosità, la
guapperia: l’essere un’increspatura dell’aria che pretende di definire
le cose. – Allo stesso tempo, dentro il retoricame, soprattutto se
ridotto all’ossario comune della laconica sincerità, i più sensibili
avvertono anche altro: la parola come una vecchia pietra pomice: un
grumo reso ruvido e sforacchiato dal niente pre-umano che tutto
circonda e consuma. La parola come un accesso laconico al silenzio
minerale del non essere? Ma scoprirlo vuol dire finirla: finire la
parola e la vita. Cose da quinto atto: quando il sangue versato e che
si verserà ancora si rivela chiaramente inutile, quando la propria
stessa morta è la figura opaca di un quadro spento.
Non resta più
niente da fare,
il fatto
è sbagliato e non disfabile: prìncipi intelligenti contemplano per
l’ultima volta disastri non evitabili che non insegneranno niente a
nessuno. Lì parole residue diranno qualcosa di quel niente al nessuno
che è rimasto ad ascoltare. Se sono un po’ isterici – spesso – e la
loro stessa isteria non li ha ancora stremati, i prìncipi lamentano la
mancanza di parole caste come la verità e micidiali come il curaro.
Sempre parlando, rimpiangono il silenzio. Sono perfino più persuasivi
del silenzio stesso: lo rendono denso e fatale. Poi muoiono. Sipario.
Questi parlanti
(innamorate respinte, usurpatori di troni, figlie o mogli incomprese,
monarchi legittimi, cospiratori) prima avevano però immaginato
azioni
più definitive di ogni eloquenza, ma senza mai riuscirci. La
dissonanza di un commento di troppo avanza a qualunque evento. A sua
volta, quel commento genera una babele di parole. Se avevano fatto di
un istante del tempo un tempio, stanno già tornano i mercanti: è la
vita. Eppure certi furono capaci di uccidere per evitare almeno
questo.