Il mare circonda Amleto, come quasi
tutto in questo dramma, due volte, entrambe essenziali: per l’incontro
con lo Spettro e per il ritorno improvviso dalla falsa missione in
Inghilterra, dove avrebbe dovuto essere ucciso: «Prima che avessimo
passato due giorni in mare, una nave pirata, armata di tutto punto, ci
diede la caccia. Trovandoci troppo lenti di vela, ci rivestimmo di un
ardimento forzato e, nell’arrembaggio, io saltai loro a bordo. In
quell’istante, essi si staccarono dalla nostra nave e così io soltanto
fui fatto prigioniero. Mi hanno trattato da ladri pietosi, ma sapevano
quel che facevano: devo restituirgli il favore…» (Atto IV, sc. 6).
«Ladri pietosi», è evidente, è
quello che vorremmo essere noi qui.
Della fantastica piratesca
situazione Shakespeare non mostra niente: gli serve giusto per far
risorgere il principe («sudden return»!) «nudo» e «solo»,
resuscitato dai pirati come Giona dalla balena, appena in tempo
per il teschio di Yorick e il funerale di Ofelia.
Dice tutto Auden: «il viaggio via
mare implicherà morte e rinascita, lacerazione della maschera
dell’individuo e scoperta del suo autentico io.»
(W. H. Auden, Lezioni su Shakespeare).
Prima o poi qualche autore, che
sogniamo genialmente avventizio, farà sua la cosa, e ci scriverà un
romanzo stevensoniano: narrerà di un Amleto a suo agio coi pirati non
meno che con i suoi amici attori: sarà istrionico, divertente,
scurrile, gigionesco. Con i pirati, tutta la gioia mancata in
Danimarca.