«…accade che 
          quello che esce dai cardini del costume lo si crede fuori dei cardini 
          della ragione; e Dio sa quanto per lo più ciò sia irragionevole.»
          
          
           (M. de 
          Montaigne, Saggi, vol. I, Milano1986)
          
          
           
          
          
           
          
          
          AMLETO - Il 
          mondo è fuor di squadra: che maledetta noia,
          
          
          esser nato per 
          rimetterlo in sesto!»
          
          
          (Atto I, sc. 5, 
          tr. di E. Montale)
          
          
           
           
          
          
          «Voglio che 
          sappia vostra reverenza che sono un cavaliere della mancia, chiamato 
          don Chisciotte, ed è mia professione e mio compito andare per il mondo 
          readdrizzando tori e riparando offese.
          
          
          - Non so in che 
          cosa consista il raddrizzare torti – disse il baccelliere -, perché a 
          me da diritto mi ha fatto diventare storto, lasciandomi una gamba 
          spezzata che non si vedrà più diritta per tutti i giorni della sua 
          vita…»
          
          
          (M. de 
          Cervantes, Don Chisciotte della Mancia)
          
           
          
           
          
           
          
          Dell’ultima battuta che dice il 
          principino alla fine dell’atto primo («Rest, rest, perturbèd spirit…»), 
          tutti a contemplare il maëlstrom mirabile e metafisico di quel 
          mondo fuor di sesto!
          
           
          
          Lì il Bardo, nel 
          tatàn-tatàn-tatàn di tre giambetti rapidi rapidi (“The time - is 
          out - of joint”), svela il DNA universale: sei sillabe ottime dal Big 
          Bang ai buchi neri. E certo si tratta di uno di quei mille doni che 
          l’Autore dispensa di qua e di là nella fluviale tragedia, senza star 
          tanto a vedere, poiché gl’avanzano!, dove codeste perle caschino: 
          lampi e sfregi irrimediabili, infatti, non solo dalle labbra del 
          principe, ma perfino di Claudio e di Polonio, del becchino al cimitero 
          e della sentinella a fine guardia.
          
           
          
          Però, per quanto una totale 
          sospensione d’incredulità ci appenda incantati alle metafore a 
          mitraglia del nero principe spiritato, una cosa ci scappa da dire: 
          l’Amleto che subito si vede a rimetter nei cardini da solo 
          l’opulenta e manicomiale trottola planetaria, è pur sempre un 
          periferico 
          principino adolescente ci chiarisce perché, a parte nel 
          quinto atto, vada considerato un teenager!). 
          
          E insomma: che un babbo morto in 
          ossessiva attesa di faida, implichi da parte del figliolo l’imperativo 
          morale della resurrezione dell’Eden, è un caso preclaro di non raro 
          donchisciottismo giovanile («Amico Sancio, devi sapere che io nacqui, 
          per volere del cielo, in questa nostra età di ferro, per ripristinare 
          in essa quella dell’oro, o aurea, come suol chiamarsi», Don 
          Chisciotte, cap. XX): qualcosa che ha a che fare, più che con 
          cosmici eoni, con caotici ormoni. 
          
          Né lo Spettro, infatti, mai pretese 
          tanto.
          
           
          
          Commovente, per giovinezza, 
          soprattutto la teleologica chiusa della battuta: “maledetta noia, 
          /esser nato per rimetterlo in sesto!”: altro che il 
          Fabrizio della Certosa che si stravede a Waterloo mentre 
          mostra la gloria a Bonaparte! Qui siamo appena all’inizio del dramma, 
          il livoroso fantasma del papà è or or scomparso, e Amleto già 
          rimpiazza il fallito Gesù Cristo.
          
           
          
          
           
          
          
          
          NOTA DA TRADUZIONE:
          
          
          
          «O destino maledetto,
          
          
          
          che sia mai nato io per rimetterlo in sesto!»
          
          
           
          
          
          Nell’originale in inglese (“O cursed spite,/ That ever I 
          was born to set it right”) tutto il contesto della frase, 
          secondo me, ruota intorno al significato da dare all’avverbio “ever” 
          (che i dizionari usualmente rendono, in un’accezione non avversativa, 
          con i corrispettivi in italiano “mai”, “sempre”, “qualche volta”).
          
          
          
          Ammetto di non aver apprezzato molto le scelte di illustri traduttori, 
          che nella loro versione italiana hanno in pratica omesso l’avverbio “ever”, 
          aggirando deliberatamente o meno l’ostacolo ermeneutico. Ma senza 
          “ever” a mancare sono esattamente i sensi intensivi, rafforzativi, 
          immani avvertiti da Amleto di un’azione da compiere che si scontra 
          nell’immediato, oserei dire, con la trascendenza.