SPETTRO - Ricordati di me.
(Atto I, sc. 4)
AMLETO - Se mai mi hai tenuto nel cuore assentati per un poco dalla
felicità, e in questo mondo feroce respira soffrendo per raccontare la
mia storia. (Atto V, sc. 2)
Quinto atto, scena seconda. Amleto
morente prega Orazio che scriva la sua storia. - Uno dei tanti modi per
leggere il dramma è il riconoscimento di questo cerchio: all’inizio c’è
un padre morto che impone al figlio una memoria da sottoscrivere col
sangue della vendetta; alla fine il figlio morente chiede di far sì che
ci si ricordi di lui col racconto del suo triste singolare destino. Da
un ricordati di me all’altro, col secondo che ha in sé il primo:
e noi a ricordarci il ricordo di quel ricordo: senza sapere alla fin
fine, punto che seccò molto
Eliot,
neppure bene cosa si stia ricordando.
La scrittura di Amleto è
postuma già nel delirio antecedente la scrittura stessa: è postuma già
nel brogliaccio appena vagheggiato dal morente a Orazio, in quel suo
sogno di diventare un giorno una scrittura, un resto che
avanzi al silenzio.
Questo «resto», questo testo avanzerà
alla cacofonia della sua giovinezza sprecata, la quale del resto per
natura sua tragica e leggera cos’altro è se non un anelito sorgivo e
demodé? (E per questo il suo capolavoro resta Romeo e
Giulietta).
Il giovane Amleto ha vissuto un
destino troppo denso per lasciarlo dire a lui stesso, ai suoi taccuini
caldi di madrigali per Ofelia e poi invasi dai buî ricordi paterni.
Troppo ricco, per potersi dire nelle parole del suo eroe già troppo
sbranato dai fatti, già troppo allucinato e inconsulto: se la voce dell’Amleto
fosse stata solo la sua, il testo sarebbe stato peggio perfino del
Gonzago che doveva accalappiare la coscienza del Re: un Claudio che
di maiale in trono di giorno e mandrillo di notte con la pessima madre
passiva, Ofelia a seconda del momento o scema o morta, il ministro
leccapiedi, Fortebraccio e Orazio meravigliosi: due Amleti che la sorte
puttana ha graziato, la Danimarca marcia… terribile!
Per fortuna scrive tutto il lento
opaco Orazio, che dà subito un saggio ottimo di sé come autore in
quell’epilogo-proemio che offre della vicenda a Fortebraccio: «
Sentirete di colpe carnali, di atti sanguinosi e snaturati, di disgrazie
volute dal cielo, di uccisioni provocate dal caso, di morti preparate
con astuzia e inganno, e in questo epilogo di calcoli sbagliati che
ricadono sulla testa di chi li ha fatti». Meraviglioso: sembra
Shakespeare.