"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 13  settembre 2007

 


 

n. 13 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 13

 

 50. Botanica per folli

 

 

 

 


 

  

LAERTE: Non dice niente, e dice tutto.

(Atto IV, sc. 5)

 

«Andando dall’uno all’altro con misteriose movenze di danza, Ofelia canta. Sono canzoni dove il pathos della pietà s’intreccia allo scandalo per quella rovina tremenda, intollerabile a vedersi, mentre il dolce canto nostalgico della ninfa trapassa in trenodia luttuosa. Intanto, novella Flora, Ofelia, la signora dei Fiori, munifica distributrice agli astanti ammutoliti l’abbondanza di messi che ha raccolto per il funerale del padre. Dà del rosmarino al fratello, perché ricordi, e delle pansèe, perché inducono pensieri. Al re offre finocchio e acquilegia, entrambe erbe regali. Alla regina dà la ruta, e ne prende anche per sé. E’ l’erba che aiuta la vista e rafforza la mente. E’ anche chiamata l’erba della grazia, e per questo l’offre alla regina. Le dà anche una margherita. Le darebbe anche delle violette, ma si sono appassite da quando suo padre è morto.

 

Potrebbe essere la Primavera botticelliana. L’annuncio della infinita ricchezza della natura nelle sue varie stagioni. Ma accanto alla ninfa primaverile affiora agli occhi della mente un’altra immagine, quella della Flora del Tiziano, o di Palma il Vecchio, dove non più una ninfa, Flora è una donna invitante, seducente, appena appena discinta. E dove i fiori si sposano alla sessualità in invenzioni linguistiche che adombrano inquietanti simbolismi.

Comunque, che sia la ninfa Cloris, o la Flora Meretrix, una cosa è certa: Ofelia è bella. Fa diventare bello il dolore, bello l’inferno, commenta Laerte.

E’ l’ultima volta che vediamo Ofelia viva.» (N. Fusini, Donne fatali, Roma 2005)

 

 

Le viole sono un fiore che in Amleto torna. Laerte aveva già avvertito Ofelia della fatuità dell’amore di Amleto chiamandola passioncella pari a «violetta (violet) che spunta a primavera» (Atto I, sc. 3); poi Ofelia pazza dirà, oltre delle viole del pensiero, di quelle troppo presto appassite che non hanno potuto adornare il corpo del padre; infine Laerte invoca che dallo stesso corpo morto di Ofelia spuntino viole.

 

Ma torniamo alla follia di Ofelia.

Come una Emily Dickinson che si sia lasciata andare, finalmente, Ofelia prima vaneggia e poi muore affogando tra ghirlande di fiori certo anche simbolici, tutti elencati dalla regina col loro semplice nome tranne i più osceni falloformi: «quei fiori purpurei / a cui gli osceni pastori danno un nome più volgare, / ma che le nostre caste fanciulle chiamano dita di morto.» (Atto IV, sc. 7). Serpieri azzarda orchidea purpurea – e N. D’Agostino traduce infatti subito «orchidea rossa» – chissà se il nostro Giovannino Pascoli pensava anche a questo passo quando scrisse l’indimenticabile e kitschiosissima Digitale purpurea dove il contrasto tra castità  e fiore osceno pare identico:

 

                                                   …«Io,»

mormora, «sì: sentii quel fiore…


 

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