«Andando dall’uno all’altro con
misteriose movenze di danza, Ofelia canta. Sono canzoni dove il pathos
della pietà s’intreccia allo scandalo per quella rovina tremenda,
intollerabile a vedersi, mentre il dolce canto nostalgico della ninfa
trapassa in trenodia luttuosa. Intanto, novella Flora, Ofelia, la
signora dei Fiori, munifica distributrice agli astanti ammutoliti
l’abbondanza di messi che ha raccolto per il funerale del padre. Dà del
rosmarino al fratello, perché ricordi, e delle pansèe,
perché inducono pensieri. Al re offre finocchio e acquilegia,
entrambe erbe regali. Alla regina dà la ruta, e ne prende anche
per sé. E’ l’erba che aiuta la vista e rafforza la mente. E’ anche
chiamata l’erba della grazia, e per questo l’offre alla regina. Le dà
anche una margherita. Le darebbe anche delle violette, ma
si sono appassite da quando suo padre è morto.
Potrebbe essere la Primavera
botticelliana. L’annuncio della infinita ricchezza della natura nelle
sue varie stagioni. Ma accanto alla ninfa primaverile affiora agli occhi
della mente un’altra immagine, quella della Flora del Tiziano, o
di Palma il Vecchio, dove non più una ninfa, Flora è una donna
invitante, seducente, appena appena discinta. E dove i fiori si sposano
alla sessualità in invenzioni linguistiche che adombrano inquietanti
simbolismi.
Comunque, che sia la ninfa Cloris, o
la Flora Meretrix, una cosa è certa: Ofelia è bella. Fa diventare bello
il dolore, bello l’inferno, commenta Laerte.
E’ l’ultima volta che vediamo Ofelia
viva.» (N. Fusini, Donne fatali, Roma 2005)
Le viole sono un fiore che in
Amleto torna. Laerte aveva già avvertito Ofelia della fatuità
dell’amore di Amleto chiamandola passioncella pari a «violetta (violet)
che spunta a primavera» (Atto I, sc. 3); poi Ofelia pazza dirà,
oltre delle viole del pensiero, di quelle troppo presto appassite che
non hanno potuto adornare il corpo del padre; infine Laerte invoca che
dallo stesso corpo morto di Ofelia spuntino viole.
Ma torniamo alla follia di Ofelia.
Come una Emily Dickinson che si
sia lasciata andare, finalmente, Ofelia prima vaneggia e poi muore
affogando tra ghirlande di fiori certo anche simbolici, tutti elencati
dalla regina col loro semplice nome tranne i più osceni falloformi:
«quei fiori purpurei / a cui gli osceni pastori danno un nome più
volgare, / ma che le nostre caste fanciulle chiamano dita di morto.»
(Atto IV, sc. 7). Serpieri azzarda orchidea purpurea –
e N. D’Agostino traduce infatti subito «orchidea rossa» – chissà se il
nostro Giovannino Pascoli pensava anche a questo passo
quando scrisse l’indimenticabile e kitschiosissima Digitale
purpurea dove il contrasto tra castità e fiore osceno pare
identico:
…«Io,»
mormora, «sì:
sentii quel fiore…