ENRICO –
E cosa hanno i
re che non l’abbiano anche i comuni cittadini, / se non la cerimonia, se
non l’universale cerimonia?
(Enrico V, Atto IV, sc. 1)
CLAUDIO – …A mali
estremi
estremi rimedi.
Oppure niente.
(Amleto, Atto
IV, sc. 3)
Tra le tante cose leggibili nel primo
discorso di Claudio una ci sembra chiara: non sottovalutarlo! - Non c’è
mai in lui solo una banale smaccata villainy di re
machiavello porcello e travicello, ma la ceremony di un
habitus fino in fondo regale (cfr. G. L. Kittredge The
Complete Works of Shakespeare, 1936): un usurpatore all’altezza
del suo regno, capace di un ottimo dire, che del re è il primo fare: «Like
Plato, the Elizabethians believed in the truth of names» purché,
come Socrate nel Cratilo, i nomi siano detti da chi
può e deve, quindi dal legislatore.
Questo potere normativo è supremo nel
momento dell’incoronazione.
Claudio, che agli occhi di
tutti è il re, decide, sancisce, impone, media, proclama: «In the
legal sphere too, the king’s word was immediatly effective, and so were
the words spoken by those to whom he debuted legal authority…»
(M.M. Mahood, Shakespeare’s Wordplay,
London 1957).
CLAUDIO: …Ora, venendo a noi
e a questa nostra riunione, la
questione sta così:
abbiamo qui scritto al Re di
Norvegia…
(Atto I, sc. 2)
Bella, come sempre, la notazione di
Nemi D’Agostino: «Discorso giusto di un uomo ingiusto, o, come dicono
le Coefore (398) “il giusto che sorge dall’ingiusto”. Le
parole del re possono anche significare, a un livello più basso, il suo
desiderio costruttivo di ristabilire un ordine che porti rimedio alla
colpa, come sarà implicito nel suo rimorso a III, iii, 36-72.
claudio non sarebbe il primo usurpatore e uccisore di Shakespeare che
diventa un re capace. Alle frequenze più basse cogliamo nel discorso i
piani dell’emotività, della hybris, delle passioni, della sofferenza: ad
es. l’avidità di potere di Claudio ma anche la sua tolleranza e il suo
forte amore per la regina (IV, vii, 14-16). tutti questi piani, e
il piano dell’inganno che vi sente Amleto, costituiscono l’entità
indefinibile e carismatica che è Claudio, la cui ultima realtà di uomo «deinòs»
(portentoso) è indefinibile e ingiudicabile (come sapeva Cristo),
investita com’è dalle forze della Moira, della Tiche, di Ate. Claudio è
complesso come Macbeth, e una complessità appena minore si trova nella
regina e in Polonio, in armonia con la prospettiva drammatica e il
degradare dal centro in fuori della polisemia»
(N. D’Agostino, Nota a W. Shakespeare,
Amleto, Milano 2004).
Claudio conosce l’angoscia dell’omicida
che vorrebbe «poter arrestare nella rete le conseguenze» del male
compiuto, «principio e fine del mio atto» rinchiuso «su questa secca del
tempo» (Macbeth,
Atto I, sc. 7). Quando
in realtà non c’è fine al passato, il quale «non è ciò che si annienta, ma
è ciò che, proprio perché non si ripete, è compiuto, perfectum”
(E. Severino, La filosofia futura, Milano 2006) e dunque
incorreggibile. – Arriva dunque anch’egli al pentimento inane, senza esito
e senza senso («Se fossi morto soltanto un’ora prima di questo
avvenimento, io avrei vissuto un tempo beato…» Macbeth, Atto II,
sc. 3; e anche in Enrico VI parte II: «Oh! fosse ancora
da fare! Che abbiamo mai fatto?»). – E sempre come Macbeth Claudio cede
infine al terrorizzato pensiero che all’imperfezione del primo delitto
possa porre rimedio solo un secondo, e così, ucciso suo fratello, si
ritrova senza desiderio a complottare per «la immediata morte di Amleto.
Fallo, Inghilterra; perché come l’etisia egli infuria nel mio sangue, e tu
devi curarmi. Finché io non so ch’è fatto, qualunque cosa m’accadesse, le
mie gioie non sarebbero mai cominciate» (Amleto, Atto IV, sc. 3).