«La vostra morte
è sobria; in Danimarca usiamo macchine assai più sgangherate e
chiassose.»
(G. Manganelli,
Un amore impossibile, in Agli dèi ulteriori, Torino
1972)
I morti,
Che discrezione!
Dormono
Davvero al
fresco.
(J. Laforgue,
Amleto, ovvero Le conseguenze della pietà filiale)
«Per essi è finita
l’angoscia di non poter più risorgere»
(Eschilo,
Agamennone, vv. 568-9)
Che la morte possa pur sempre giungere come un
ladro nella notte perfino nel tempo degli stents coronarici e
della chemio democratica, a noi scandalizza. Una volta era l’agguato a
cui doversi far trovare sempre pronti; ora invece anche la Signora stenta, si dà a spizzichi
minuti, lenti esasperantemente. E le agonie son diventate
ergastoli di tortura. «La morte, da tempo preannunciata, promessa da
compaesani autorevoli, garantita da benevoli capi divisione, tarda a
venire, la vita rischia di diventare cronica…» (G. Manganelli,
Hyperipotesi, in Tragedie da leggere, Torino 2005).
Occorrerà difendersi.
Come si vede, però, l’attenzione di
tutti, come in ogni altra cosa del resto, si è spostata dal fatto alla
procedura: non la morte, ma le diagnosi, le dosi dei farmaci,
la correttezza delle opzioni chirurgiche… tutti esperti sul come.
- «Sì, ma morire, è andare non sappiamo dove» (Misura per misura,
Atto III, sc. 1): su questo invece nessuno che abbia la zucca sul
collo ha più niente da dire: come se morire fosse l’ordine di un
capoufficio – né è escluso che questa natura impiegatizia della Morte,
la sua pigra serialità da catasto, non ne riveli una vocazione
autentica e meschina alla miopia e alla grigia routine: una sua verità
più vera, per esempio, dei fasti barocchi degli scheletri in
gramaglie svolazzanti tra i turbini pestiferi…
«Sì, ma morire, e andar non
sappiamo dove; giacere in un freddo irrigidimento e imputridire; che
questo caldo e sensibile morto debba divenire argilla trattabile, e il
dilettoso spirito bagnarsi in infocati flutti, o dimorare nella
mordente regione del ghiaccio a folte croste; essere imprigionato nei
venti invisibili, e soffiato con violenza senza posa intorno al
pendulo universo; o star peggio del peggiore di coloro che pensieri
sfrenati e malcerti immaginano urlanti: troppo orribile! A più penosa
e detestabile vita terrena che l’età, la doglia, la penuria e la
prigione possano infliggere alla natura è un paradiso a petto di quel
che noi temiamo dalla morte.» (Misura per misura, Atto III,
sc. 1).
In Amleto, si sa, muoiono quasi
tutti, nessuno - tra l’altro - facendo «una fine propriamente
cristiana» (G. Manganelli, High tea, in Tragedie da
leggere, Torino 2005). Non solo: una delle scene supreme è nel
cimitero dove saranno sepolti vicini Ofelia («fangosa morte», Atto
IV, sc. 7) e Polonio («funerale oscuro» Atto IV, sc. 5). Non stupisce nessuno che la
scena del cimitero sia comica:
«Appena si entra in un cimitero un
senso di derisione radicale bandisce ogni preoccupazione metafisica»
(E. M. Cioran, L’inconveniente di essere nati).
«D’accordo, sì… Ma non essere più,
non esserci più, non farne più parte!» (J. Laforgue, Amleto,
ovvero Le conseguenze della pietà filiale). Già, del resto,
non potendo dire niente sul senso della cosa, aiuterà la
consapevolezza che, date determinate ineludibili circostanze, morire
sarà almeno opportuno? Questo tanto più se si pensa che «chiunque non
muore al momento giusto muore due volte»
(E. M. Cioran, Quaderni.
1957-1972, Milano 2001).
Uno degli Amleti di
Manganelli,
aiutato dal fatto di essere, come gli si confà, postumo, non ha
difficoltà a riconoscere il punto: «…il fatto è che io non potevo più
vivere… era diventato filosoficamente impossibile, capite?»
(G. Manganelli, High
tea, in Tragedie da leggere, Torino 2005).
Facciamola semplice quanto merita: «è ora di morire quando c’è più
male che bene nella vita» (M. de Montaigne, Saggi, vol. I,
Milano 1986).