TIMONE - Che cosa faresti del mondo, Apemanto, se fosse in tuo potere?
APEMANTO - Lo
darei alle bestie per sbarazzarsi degli uomini.
(Timone
d’Atene, Atto IV, sc. 2)
POZZO - (fermandosi) Ma siete pur sempre degli esseri umani.
(Si mette gli occhiali) A quel che vedo. (Si toglie gli
occhiali) Della mia stessa specie. (Scoppia in un’enorme risata).
Della stessa specie di Pozzo! Fatti a immagine e somiglianza di Dio…
(S. Beckett, Aspettando Godot)
AMLETO - …per l’Ostia Santa, trattali molto meglio! Se tratti ognuno
come si merita chi eviterà la frusta?
(Atto II, sc. 2)
Non bastasse l’abnorme tradizione
cristiana a dire il peggio possibile dell’uomo in sé, dell’uomo
insomma perso per Dio, ci si mettono anche quasi tutti gli altri e
moltissime delle voci di Shakespeare: Amleto che dice tutti, nessuno
escluso, meritevoli d’essere presi a frustate, non arriverebbe neanche
nei primi dieci della classifica dei misantropi shakespeariani.
Tenendo da parte tutti i felloni risaputi che nella pessima genia
umana trovano l’alibi di capolavori di nefandezza, per la speciale
classifica, si proporrà, data la felicità retorica del loro fastidio
per i simili, il primo posto per Timone d’Atene («Sono
un misantropo e detesto il genere umano. Quanto a te, vorrei che tu
fossi un cane per poterti amare un poco», Atto IV, sc. 2);
secondo Coriolano, entrambi del resto con propri fondati motivi per
pensare quel che pensano («Meglio morire, meglio morir di fame che
domandare una ricompensa che meritiamo», Coriolano, Atto II,
sc. 3).
Più di tutti impagabile però
l’Isabella di Molto rumore per nulla: «“…ma l’uomo,
l’uomo orgoglioso vestito d’una breve autorità, che più ignora ciò di
cui è più certo, la sua vitrea essenza, come scimmia rabbiosa fa sì
stravaganti lazzi a cospetto del Cielo eccelso, da farne lagrimare gli
angeli, i quali, se avessero la nostra milza, dalle risate si
renderebbero mortali» (Molto rumore per nulla, At. II, sc.
2).
Per Amleto, l’uomo è forse
soprattutto emblema di un equivoco, il resto ambiguo di un’occasione
sprecata:
«Che opera d’arte è l’uomo, com’è nobile nella sua ragione, infinito
nelle sue capacità, nella forma e nel muoversi esatto e ammirevole,
come somiglia a un angelo nell’agire, a un dio nell’intendere: la
beltà del mondo, la perfezione tra gli animali - eppure, per me,
cos’è questa quintessenza di polvere?»
(Atto II, sc. 2)
«Ma che cosa è l’uomo
se il suo maggior bene e il miglior impiego del suo tempo è,
per lui, mangiare e dormire? Una bestia, nient’altro.
Certo chi aprì alla nostra percezione un così vasto orizzonte
che vi si può comprendere e scoprire il prima e il poi,
non ci accordò il privilegio divino della ragione
per lasciarlo, trascurato, ad ammuffire.
(Atto IV, sc. 4)
Il che inesorabilmente accade anche
ad Amleto col suo codazzo di spettri, specchi e sofismi. Il rapporto
tra predicar e razzolar, del resto, si sa che è arduo per tutti, per
cui riteniamoci a priori scusati. - Ahimè, la verità è che
siamo troppi e valiamo poco: il tempo «di dire uno» («And a man’s
life’s no more than to say one», Atto V, sc. 2): «
esseri di fumo, automi del
minuto!» (Timone d’Atene, Atto III, sc. 6). Quanto
valiamo? Il mercato e la metafisica fisseranno un punto
inevitabilmente arbitrario: «…qualcosa di mezzo tra il tutto e il
nulla» (B. Pascal, Pensieri), «medium inter Deum et
nihil» (Cartesio, Meditationes, IV).
Si potrebbe almeno un po’ abbassare
la cresta: in uno dei libri faro della biblioteca di Amleto
(cfr. M. Praz, Prefazione a
J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano 2006)
si legge che «l’uomo non è la
cosa più elevata del cosmo (…) ci sono altre cose nel cosmo molto più
divine dell’uomo, come ad esempio le splendide luci di cui si compone
il cielo» (Aristotele, Etica a Nicomaco, 1141a). Pascal
commenterebbe schifato questa supremazia delle pietruzze celesti sul
frutto dell’ultimo giorno della Creazione, ma magari Amleto,
sincretico tra tante cose (stoicismo, cristianesimo, Epicuro, Platone,
Aristotele, Lutero…), potrebbe dire un sì. Certo la sua pur breve
pratica di corte è sufficiente a fargli constatare che «gli uomini si
danno in affitto» (M. de Montaigne, Saggi, vol. III, Milano
1986).
In ogni caso, e comunque vadano le
cose, che «nessuno si dia delle arie» (A. Schopenhauer, Parerga
e paralipomena).