«Dunque l’uomo non è niente più di questo?»
(Re Lear, Atto III, sc. 4)
«Non c’è nulla al mondo che mia dia piacere…»
(Re
Giovanni,
Atto III, sc. 4)
«Ma noi non
diremo mai abbastanza ingiurie contro gli eccessi del nostro
sentimento.»
(M. de
Montaigne, Saggi, vol. I, Milano1986)
Come tanti
isterici, questi monarchi, compresi parenti e aspiranti, spiattellano
a se stessi nerissime metafisiche da
Ecclesiaste
solo perché le cose – magari solo per un attimo! Appena una nuvola a
ciel sereno! – le cose vanno storte. Fallisce il complotto? S’inceppa
la battaglia? E allora giù cattiverie sull’uomo schifoso e il cosmo
reso purulento dal non senso!… «Tutto questo in te non è che
affettazione: povera e indegna ipocondria scaturita da un cambiamento
di fortuna» (Timone
d’Atene,
Atto IV, 2).
All’opposto, basta che un po’ di banalità geopolitiche, o anche solo
di carriera loro in bilico, vada a posto perché subito i tromboni
risùcchino in un come non
detto,
nell’iracondo vuoto interiore, il sublime monologo che il Bardo quasi
non vedeva l’ora di piazzargli in bocca.
Che potrebbe
essere anche un modo spietatamente equo di Shakespeare per dirci che
non ci sono uomini giusti: che il giusto e il vero li vedono solo
quelli che perdono, ma solo finché perdono. Il resto è silenzio
assenso.