«Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da
giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta
sperimentato, si riduce col tempo ad un risolino di stupore, stupore
di essercela presa per così poco, e anch’io ho creduto fatale quanto
poi si è rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A
pezzi o interi non si continua a vivere ugualmente scissi? E le
angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi,
oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato».
(A.
Busi,
Seminario sulla gioventù, 1984)
AMLETO -
Il resto è silenzio.
(Atto V, sc. 2)
La scrittura giovane, se è, è un
ossimoro. Una voce che parla di sé, già prima di cominciare a
scriversi, da dietro, da dopo: è già da sempre
Anathomy di una giovinezza-cadavere, inesorabilmente
dissanguata dall’occhio bisturi della penna – del Tempo? –, troppo
smagato per ricadere nei conati e convulsioni dell’ometto in crescita
(o decadenza?).
La scrittura vaccina la giovinezza
da se stessa, se non altro perché ustiona la piaga. L’Amleto
è antiamletico come Pinocchio è antipinocchiesco;
totalmente e quindi ambiguamente: come mister Hide innerva la
patologica bontà del dottor Jekyll, l’antiamletismo è in tutto Amleto,
e dunque soprattutto nell’autoparòdico dirsi di Amleto, che nell’Amleto
non è solo il fool di una corte neppure tanto male (e tanto
meno se si pensa allo standard delle corti di Shakespeare!), ma
di Amleto stesso. – Come in quasi tutte le cose, conta molto poco che
questo sia o meno intenzionale: Amleto è parodia di se stesso due
volte: perché esagera sempre, esagera, giovanilmente, anche
nell’intelligenza; e soprattutto perché Amleto ormai non c’è, ed è
scritto e recitato da un altro: dalle «parole parole parole»
(nessun personaggio di Shakespeare ciancia tanto) sue secondo l’autore
il ben più arduo autore del dramma.
Questa distanza, questo essere
comunque in un altro tempo rispetto al fatto, questa dovuta
vecchiezza del testo, questo essere la scrittura sempre l’Orazio di un
altro Amleto, è la fortuna del testo. Ed e la chiave di ogni
possibile lettura. Anche quando l’autore è un giovane che scrive della
sua giovinezza più ormonale e drogata, se scrive davvero, dell’istante-bello-da-fermare
fa ben altro che l’istant-book che sempre chiede il pubblico,
adolescente anche a novant’anni, e che raramente coglie l’ironia anche
acida dell’autore Merlino sulla coppietta romeo-giulietta, e ancora
meno sullo «sweet prince» fresco (?) di esami a Wittenberg.
Ma l’Amleto è
il contrario di un’egocentrica pietanza. Quando morente il principe
dice «Voi
che assistete pallidi e tremanti a questo evento, e siete solo
comparse e spettatori del dramma» (Atto V, sc. 2), come sempre
manifesta almeno due cose: un fatto e un eccesso di io: trappola che
le letture più accorte del dramma hanno imparato a non cadere.
Nel testo prodigioso c’è una trama
che intreccia gli a-solo del più celebre dei monologanti in una
rete di controcanti sempre speculari e dissonanti all’ego-ego-ego
dell’«eroe». L’Amleto non è una sola linea melodica
accompagnata da un meccanico basso albertino (il motivo per cui
Glenn Gould trovava noioso Mozart!), è un
intricatissimo madrigale di Gesualdo. La voce di Amleto
s’intreccia nella polifonia dell’anti-Amleto, ed è polifonica –
doppia, tripla e più ancora - già lei stessa: sgambetta da sola il suo
melodramma, irride la sua volontà, paradizza il goffo compito da
macellaio sapiente che gli tocca assolvere nella greve cosmicomica
Danimarca. E da scemo saputo muore.
Lo spirito anti-wertheriano che
Ladislao Mittner (“Werther romanzo anti-wertheriano”
in La letteratura tedesca del Novecento e altri saggi,
Torino 1960) riconobbe nel gigantesco equivoco romantico
del Werther, è di tutta la letteratura. Goethe stesso fu
chiaro (J. P. Eckermann, Colloqui con il Goethe, Torino
1957): chi si suicidò con le parole di Werther sulle labbra prese
l’estrema cantonata della vita: tanto intossicato di suo da
avvelenarsi con un vaccino.
Quell’anti riconosciuto da
Mittner è la chiave. Una buona lettura dell’Amleto dovrebbe
straniarci dai nostri inguaribili amletismi e renderci ironici e
assenti abbastanza da non dire mai più io. Cose che accadono quasi
solo ai santi.