Il padre morto da due mesi è
Iperione e poi Ercole, Claudio un
satiro, la madre piangente, ma solo in apparenza, Niobe
(Atto I, sc. 2).
La mitomania di Amleto sarà anche un tratto dell’epoca, ma almeno in
Shakespeare nessun altro personaggio arriva a questa sua sistematica
comparazione del passato pagano e onorevole con lo sciatto prosaico
presente: confronto insostenibile per tutti tranne che per suo padre.
L’assunzione del padre a compendio dell’Olimpo viene riproposta e
amplificata nella terribile closet scene, dove la madre resta
inerme e atterrita a subire le sventagliate di parole-pugnali del
figlio ferito:
Guarda quale grazia regnava su
questo volto,
riccioli di Iperone, la fronte di
Giove stesso,
l’occhio di Marte, per minacciare
e comandare,
un portamento come l’araldo di
Mercurio…
(Atto III, sc. 4)
Un dottor Frankenstein demiurgo
avrebbe assemblato nel re morto e ora spettro il migliore degli uomini
possibili; Claudio in confronto è palude, spiga avvizzita, ciccia
lubrica e arrivista: «Un assassino e un furfante, / uno schiavo che
non vale un ventesimo / della decima parte del tuo precedente signore,
/ un buffone di re, un tagliaborse dell’impero / e del governo…»:
Amleto andrebbe avanti chissà quanto se la mamma, donna così moderna
da non praticare gli scapaccioni non dicesse «Basta!» (Ibid.).
Se don Chisciotte vede
dappertutto il medioevo dei paladini antiqui, il donchisciottismo di
Amleto è altrettanto libresco, ma composto da un classicismo applicato
compulsivamente a ogni cosa lo colpisca: pur di raggiungere lo
Spettro, lui è pronto a diventare «un leone nemeo» (Atto I, sc. 4),
quando sta per raggiungere la madre nella sua stanza, è tale la sua
voglia di scatenarsi che deve stare attento a non farsi «mai entrare
l’anima di Nerone» (Atto III, sc. 2). - Soprattutto,
contemplando il cranio smascellato di Yorick, fa una domanda così
scema, neanche fosse un Ortis qualunque, che perfino Orazio non sa
davvero che dirgli: «Credi che Alessandro avesse questo aspetto
sotterra? ? ...E puzzava così?» (Atto V, sc. 1).
Qui il principe prende addirittura a
citarsi: quando, procedendo per sillogismi immaginifici da Alessandro
al tappo di una botte, ripete la stessa solfa con cui aveva spiegato a
Claudio come può accadere che uno dei vermi che ha rosicato il re
morto possa far da esca onesta a un pescatore, per cui «uno
può pescare col verme che ha pappato un re, e papparsi il pesce che ha
pappato il verme» (Atto IV, sc. 4); dove poi da lì vada per
carità di patria non ci viene illustrato ulteriormente .
Notevole, di codesta ossessione per
lo scandalo del corpo che pùtrefa, la corrispettiva indifferenza per
le sorti dell’anima. Eppure c’è chi ha scritto di Amleto come di un
principe cristiano. Ma onore e la gloria mondana sono quanto, anche
non donchisciottescamente, Amleto chiede. I libri che si son sciolti
come zuccheri nella sua mente non sono cattolici, piuttosto utili per
un’etica che si estrinseca tutta nell’aldiquà di un mondo che sarà
pure impazzito e corrotto, ma che resta evidentemente il solo
concesso: «L’Etica Nicomachea e De officiis di
Cicerone
sono i testi fondamentali dell’etica rinascimentale, ripetuti e
imitati a sazietà in una serie di trattati, prima italiani e poi anche
stranieri, che formano una vasta biblioteca d’elegante veste
tipografica e di spaventosamente monotono contenuto.» (M. Praz,
Prefazione a J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo,
Milano 2006).