"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 13, settembre 2007 


n. 13 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 13

51.  Basta!

(Mitomania e donchisciottismo)

 


Il padre morto da due mesi è Iperione e poi Ercole, Claudio un satiro, la madre piangente, ma solo in apparenza, Niobe (Atto I, sc. 2). La mitomania di Amleto sarà anche un tratto dell’epoca, ma almeno in Shakespeare nessun altro personaggio arriva a questa sua sistematica comparazione del passato pagano e onorevole con lo sciatto prosaico presente: confronto insostenibile per tutti tranne che per suo padre. L’assunzione del padre a compendio dell’Olimpo viene riproposta e amplificata nella terribile closet scene, dove la madre resta inerme e atterrita a subire le sventagliate di parole-pugnali del figlio ferito:

 

Guarda quale grazia regnava su questo volto,

riccioli di Iperone, la fronte di Giove stesso,

l’occhio di Marte, per minacciare e comandare,

un portamento come l’araldo di Mercurio…

(Atto III, sc. 4)

 

Un dottor Frankenstein demiurgo avrebbe assemblato nel re morto e ora spettro il migliore degli uomini possibili; Claudio in confronto è palude, spiga avvizzita, ciccia lubrica e arrivista: «Un assassino e un furfante, / uno schiavo che non vale un ventesimo / della decima parte del tuo precedente signore, / un buffone di re, un tagliaborse dell’impero / e del governo…»: Amleto andrebbe avanti chissà quanto se la mamma,  donna così moderna da non praticare gli scapaccioni non dicesse «Basta!» (Ibid.).

 

Se don Chisciotte vede dappertutto il medioevo dei paladini antiqui, il donchisciottismo di Amleto è altrettanto libresco, ma composto da un classicismo applicato compulsivamente a ogni cosa lo colpisca: pur di raggiungere lo Spettro, lui è pronto a diventare «un leone nemeo» (Atto I, sc. 4), quando sta per raggiungere la madre nella sua stanza, è tale la sua voglia di scatenarsi che deve stare attento a non farsi «mai  entrare l’anima di Nerone» (Atto III, sc. 2). - Soprattutto, contemplando il cranio smascellato di Yorick, fa una domanda così scema, neanche fosse un Ortis qualunque, che perfino Orazio non sa davvero che dirgli: «Credi che Alessandro avesse questo aspetto sotterra? ? ...E puzzava così?» (Atto V, sc. 1).

Qui il principe prende addirittura a citarsi: quando, procedendo per sillogismi immaginifici da Alessandro al tappo di una botte, ripete la stessa solfa con cui aveva spiegato a Claudio come può accadere che uno dei vermi che ha rosicato il re morto possa far da esca onesta a un pescatore, per cui «uno può pescare col verme che ha pappato un re, e papparsi il pesce che ha pappato il verme» (Atto IV, sc. 4); dove poi da lì vada per carità di patria non ci viene illustrato ulteriormente .

 

Notevole, di codesta ossessione per lo scandalo del corpo che pùtrefa, la corrispettiva indifferenza per le sorti dell’anima. Eppure c’è chi ha scritto di Amleto come di un principe cristiano. Ma onore e la gloria mondana sono quanto, anche non donchisciottescamente, Amleto chiede. I libri che si son sciolti come zuccheri nella sua mente non sono cattolici, piuttosto utili per un’etica che si estrinseca tutta nell’aldiquà di un mondo che sarà pure impazzito e corrotto, ma che resta evidentemente il solo concesso: «L’Etica Nicomachea e De officiis di Cicerone sono i testi fondamentali dell’etica rinascimentale, ripetuti e imitati a sazietà in una serie di trattati, prima italiani e poi anche stranieri, che formano una vasta biblioteca d’elegante veste tipografica e di spaventosamente monotono contenuto.» (M. Praz, Prefazione a J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano 2006).


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