BECCHINO - Un
atto ha tre rami: cioè agire, fare, eseguire”
(Amleto,
Atto V, sc. 1)
«Amleto non farà nulla troppo
presto» (H. Bloom, Shakespeare, Milano 2003). A parte,
naturalmente, sbudellare Polonio. Sul fare senza por metafisiche
ciance in mezzo, vedi anche Falstaff al re futuro: «non
sei di sangue reale se non osi andar per le spicciole per dieci
scellini» (Enrico IV parte I, I, 2), ed Enrico presto
svelerà di avere già dentro di sé la capacità di «imitare l’azione
della tigre» (Enrico V, At. III, sc. 1).
Che fare imponga di
non-sapere, chi a sue spese non lo sa? - Troppo «aggrovigliata la
molteplicità dei “fenomeni” che vanno sotto il nome di fenomeno»
(M. Heidegger, Essere e tempo) per ridursi facilmente a
un modo giusto di porci mano. - Si passa a doversi districare da un
nodo di Gordio all’altro, e, così, a forza di dar colpi machete
al cosmo, ci si consuma a fare sempre come il sacrilego Macedone che,
non sapendo perfino lui sciogliere, piuttosto che lasciar stare,
tagliò.
Ancora una volta in Severino
si trova dell’enigma una definizione adeguata: «La decisione più
semplice – ad esempio la
decisione di prendere in mano un oggetto – presuppone, in chi decide,
la convinzione che l’oggetto della decisione sia isolato dal resto del
mondo, cioè non sia unito al mondo da un legame indissolubile»;
perché, se una decisione «non isolasse ciò di cui essa decide, essa
non si costituirebbe nemmeno» (E. Severino, La filosofia futura,
Milano 2006). Non solo per lui, codesta indissolubilità che lega
ogni cosa a tutte le altre è addirittura evidente. Dunque?
Che fare? Perché fare è pur
necessario. Il gran trucco politico lo trovi in Carl Schmitt
(Teologia politica,
1922)
quando definisce il potere come sovrano dello «stato di eccezione»:
quello che in Shakespeare si chiama appunto, come già in
Machiavelli, «necessità» (nel Principe, 78
ricorrenze del suo gruppo di lemmi; un’altra trentina per quelli del
convenire, che vuol dire dovere, verbo che di suo ha
oltre un centinaio di ricorrenze!): «Son dunque queste cose
necessarie? Affrontiamole allora come necessità, e questa parola ora
ci chiama a gran voce» (Enrico IV parte II, Atto III, sc. 1).
È proprio di regali uomini senza
scrupoli trovar sempre l’emergenza – guerre, stragi, minacce, nemici –
che dia loro il carisma «della menzogna, di ogni menzogna che induca
ad agire» (E. M. Cioran, La tentazione di esistere): un
agire che appaia urbi et orbi necessario, che soprattutto
giustifichi al mondo la necessità di loro stessi come agenti di
quell’azione! (E qui, come si vede, casca l’asino).
Come vada a finire il politico
onnivoro fare trascolorato di «necessità», lo sa bene Ulisse,
il più politico degli uomini che proprio in Shakespeare sembra già
figurare
Schopenhauer:
«…Indi ogni cosa si risolve in potere, potere in volere, volere in
appetito; e l’appetito lupo universale, così doppiamente secondato da
potere e volere, è uopo faccia una preda universale, e infine divori
se stesso» (Trolio e Cressida, Atto I, sc. 3).
La menzogna sarà sempre la
proclamazione di uno stato di eccezione che bandisca le uggiose
mezzetinte del dubbio e schiacci, sotto i piedi protervi dell’ennesimo
arcangelo massacradiavoli, i saggi serpentelli dialettici, la
prolettica capacità di indugiare su fasci di scenari possibili più
ampi del minimo indispensabile alla giustificazione dell’azione. -
Agire o non agire? La domande del troppo intelligente sarebbe: “per
cosa?”. Con conseguente catastrofe per un’azione quasi sempre
già decisa.
Perché non è mai stato vero che il
fumoso fine giustificasse i terribili mezzi. - Per capire basta
un ricordino d’Aristotele (Topica, I, 1), che certo uno
spazio magistrale nella biblioteca d’Amleto lo ebbe (cfr. M. Praz,
Prefazione a J. KOTT, Shakespeare nostro contemporaneo,
Milano 2006). Il fondatore del Liceo insegna che è sempre saggio
andare dal più conosciuto (i nostri disponibili mezzi) al
meno (il chissà quando raggiungibile “fine”): fare il contrario è
una demenza che, per il fatto di esser consueta, non diventa più
intelligente. Il fine fu deciso – da sempre? fatalmente? - in realtà
facendo un salto bell’e buono e a corpo morto, al di là delle
piranesiane geometricità del pensiero, dritti dentro il
maelstrom delle sempre più ebbre concitazioni del fare. -
Sporchiamoci le mani! È il grido d’orgoglio dei facitori di mondi,
dei fondatori di cooperative, dei fabbricanti d’imperi e religioni.
Per loro, molto più economicamente, un fare già fatto e strafatto
prova ad appiccicarsi a posteriori un qualche blablà – non servono a
questo i sofisti? - che potenzi l’autoipnosi indispensabile.
Tutto in ogni caso accade, direbbe il dottor Freud, per
excessus libidinis - pulsione di piacere o di morte che sia.
(Su tutto ciò, impossibile non
ricordare l’aureo libretto di Hannah Arendt, Sulla violenza,
Parma 2001. – E, almeno per noi passeri solitari dalle cadute non
provvidenziali che preferiscono i bordi della storia al centro della
messinscena, da non dimenticare che «io farò ciò che sono tenuto a
fare» è anche una frase del Don Chisciotte).