"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 


n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

3.  Fottere Dio

 


 

«Ora potrei farlo come niente, ora che prega

e ora lo farò. E così se ne va in cielo…»

(Atto III, sc. 3)

 

«In Shakespeare non ci sono dei.»

(J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano 2006)

 

 

Scena terza del Terzo Atto. Claudio, solo, prega, e Amleto non coglie il momento irripetibile in cui fare il sicario dello Spettro sarebbe facile. Non lo fa perché lo spedirebbe a un Giudizio che immagina ben più clemente di quanto lo supponga lo stesso Re fratricida. Freud direbbe che Amleto mena il can per l’aia, essendo troppo intelligente per pensare davvero alla fanfaluca del Re che ascende in Cielo al prezzo low di una sghemba preghieruzza. Sarebbe questa, piuttosto, una delle pietose bugie che gli riserva la sua edipica nevrosi. Vero o no, chissà la faccia dello Spettro, mentre vede il figlio, col fallico pugnale in mano, cavillare così smaccatamente sull’essere o non essere della coltellata, invece di obbedirgli al volo.

 

Come diceva Talleyrand? «Et surtout, pas trop de zèle!»  - Appunto. Amleto vuole una vera hybris della vendetta; vuole troppo e quindi niente. Non solo farlo secco, ma esser certo di precipitare in Caìna chi a vita gli spense il papà (cfr. Dante, Inferno, canto V). Così traccheggia e illaziona da leguleio di un codice di procedura teologica da bassissimo impero: Non lo uccido per non mandarlo in paradisocredendo di poter incatenare il giudizio di Dio alla sua tempistica di sicario troppo loico. Stupidaggini appena tollerabili se avesse studiato ragioneria a Parigi invece che filosofia a Wittenberg, ma non dalla bocca di questo funambolo delle premesse maggiori e minori... Insomma, non solo per una cattolicità che non conosce l’inconscio, qui Amleto è odioso e pusillanime.

 

Si pensi per contrasto al figlio di Polonio, il semplice Laerte, il quasi cognato in cui il Principe Sottile, soprattutto dopo avergli sbuzzato il padre, per dèmone mimetico (cfr. R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia) ama specchiarsi come in un doppio mancato, che di slancio correrebbe «a tagliargli la gola in chiesa» (Atto IV, sc. 7): dovesse per questo dannare sé e scaraventare Amleto a bearsi nel bocciolo più stretto della Rosa Mistica, Laerte sentirebbe di aver fatto il suo. - Laerte, sotto la patina glamour dell’università di Parigi, resta un ispido barbaro pronto alla vendetta: a danish dog: «Sono deciso in questo, a non curarmi / né dell’uno né dell’altro mondo di là, / accada quel che accada. Basta che abbia / vendetta per mio padre» (Atto IV, sc. 5).

E qui vedi uno degli infiniti specchî in cui si articola il labirintico dramma, ché nessuna cosa accade una sola volta, ma piuttosto a tutti tutto, anche se, certo, a ognuno a suo modo.

 


 torna a  

 

     torna su