«Ora potrei
farlo come niente, ora che prega
e ora lo farò. E
così se ne va in cielo…»
(Atto III, sc.
3)
«In Shakespeare
non ci sono dei.»
(J. Kott,
Shakespeare nostro contemporaneo, Milano 2006)
Scena terza del Terzo Atto.
Claudio, solo, prega, e Amleto non coglie il momento irripetibile in
cui fare il sicario dello Spettro sarebbe facile. Non lo fa perché lo
spedirebbe a un Giudizio che immagina ben più clemente di quanto lo
supponga lo stesso Re fratricida.
Freud direbbe che
Amleto mena il can per l’aia, essendo troppo intelligente per pensare
davvero alla fanfaluca del Re che ascende in Cielo al prezzo low
di una sghemba preghieruzza. Sarebbe questa, piuttosto, una delle
pietose bugie che gli riserva la sua edipica nevrosi. Vero o no,
chissà la faccia dello Spettro, mentre vede il figlio, col fallico
pugnale in mano, cavillare così smaccatamente sull’essere o non essere
della coltellata, invece di obbedirgli al volo.
Come diceva
Talleyrand? «Et surtout, pas trop de zèle!»
-
Appunto. Amleto vuole una vera
hybris della vendetta; vuole troppo e quindi niente. Non
solo farlo secco, ma esser certo di precipitare in Caìna chi a vita
gli spense il papà (cfr. Dante, Inferno, canto V). Così
traccheggia e illaziona da leguleio di un codice di procedura
teologica da bassissimo impero: Non lo uccido per non mandarlo in
paradiso… credendo di
poter incatenare il giudizio di Dio alla sua tempistica di sicario
troppo loico. Stupidaggini
appena tollerabili se avesse studiato ragioneria a Parigi invece che
filosofia a Wittenberg, ma non dalla bocca di questo funambolo delle
premesse maggiori e minori... Insomma, non
solo per una cattolicità che non conosce l’inconscio, qui Amleto è
odioso e pusillanime.
Si pensi per contrasto al figlio di
Polonio, il semplice Laerte, il quasi cognato in cui il Principe
Sottile, soprattutto dopo avergli sbuzzato il padre, per dèmone
mimetico (cfr. R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia)
ama specchiarsi come in un doppio mancato, che di slancio correrebbe
«a tagliargli la gola in chiesa» (Atto IV, sc. 7): dovesse per
questo dannare sé e scaraventare Amleto a bearsi nel bocciolo più
stretto della Rosa Mistica, Laerte sentirebbe di aver fatto il suo.
- Laerte, sotto la patina glamour dell’università di Parigi, resta un
ispido barbaro pronto alla vendetta: a danish dog: «Sono deciso
in questo, a non curarmi / né dell’uno né dell’altro mondo di là, /
accada quel che accada. Basta che abbia / vendetta per mio padre»
(Atto IV, sc. 5).
E qui vedi uno degli infiniti
specchî in cui si articola il labirintico dramma, ché nessuna cosa
accade una sola volta, ma piuttosto a tutti tutto, anche se, certo, a
ognuno a suo modo.