«E quello 
          sperdimento è l’insegna stessa della modernità.» 
          
          
          
          (A.  SERPIERI,
          La tragedia dell’Essere, Intr. A W. Shakespeare, Amleto, 
          Marsilio 1997)
          
           
          
          
          «L’epoca moderna 
          comincia con due isterici: Don Chisciotte e Lutero.»
          
          
          (E. M. Cioran,
          La tentazione di esistere)
          
          
           
          
          
          «…la cui 
          tormentata introspezione e spassionata penetrazione intellettuale 
          presagiscono lo spirito moderno.»
          
          
          (De Santillana, 
          von Dechend, Il mulino di Amleto)
          
           
          
          
          «Non crediate a 
          quello che vedete, perché io vi sto dicendo che non lo vedete.»
          
          
          (G. W. BUSH, 
          Conferenza stampa, marzo 2003)
           
          
            
          
          Azzarderemo un riassunto di Hegel in otto parole: 
          perché farsi una cultura se non per lusingarci? - E’ infatti, 
          bibliografia alla mano, facile notare che ci lusinga vedere 
          l’occidentale evoluzione, trailer di quella a cui sarebbe 
          tenuta la specie tout-court, come il romanzo d’un homo 
          vitruviano che impara a incivilirsi rannicchiandosi a palla nel 
          Pensatore di Rodin: epoké in posa plastica, 
          nudismo michelangiolesco per mise en âbime senza ritorno.
          
           
          
          Su questa faccenda della Modernità, 
          potessi leggere intere biblioteche shakespearologhe, troverai sempre 
          tutti all’unisono: Amleto inaugura il Moderno! – Ma poi davvero? 
          Perché è chiaro che, dando ad Amleto del moderno, faremmo l’ennesimo 
          complimento di troppo a noi stessi. Essendo noi – è anagrafica 
          evidenza - i moderni.
          
           
          
          Moderno, 
          per esempio, come: vertigine per la disumana paradossale complessità 
          della vita fin’anche nelle minuzie; percezione extrafine 
          dell’arbitrarietà di ogni gesto che si pretenda morale; sprofondamento 
          già nei propri soliloquî in dialettiche abissali; senso 
          dell’impossibilità del possibile; e quindi di quanto poco faccia il 
          fare; e di quanto troppo faccia quel catastrofico poco!… – Detto ciò, 
          essendo - nel caso specifico degli Amleti - gettati in codesto magma 
          metafisico nello status delicato e arduo di giovani principini 
          pletorici, si vede bene che non resterà, per estrinsecarsi alla meno 
          peggio, che vaghi gesti di penna: farsi sonettisti per un amore subito 
          concettoso, e fustigatori a chiacchiere del mondo dal piedistallo di 
          molto libresche e acerbe solitudini. – Questo, però, all’inizio del 
          Seicento e in un Inghilterra ancora molto innamorata di una certa 
          Italia castiglion-machiavelliana, locus squisito e sanguinario 
          che sai da quando non c’è più!... 
          
          E dunque: se questo è il quadro, 
          davvero tanta squisitezza e “metodo” anche nelle nostre moderne 
          nevrosi? Altro che «i miti dell’uomo moderno, deluso non più per 
          l’abbandono e l’indifferenza d’un dio, ma per il proprio stesso 
          grandioso fallimento» (G. Baldini, Manualetto shakespeariano, 
          Torino 1967)…
          
           
          
          
          
          «Più tardi mi si accuserà d’aver fatto scuola… come sono solo! E 
          quest’epoca…. Non c’entra neanche un po’»
          
          
          
          (C. Bene, Sceneggiatura di Un Amleto di meno)
          
           
          
            
           
          
          Pare infatti che il mondo resti in 
          mani saldissimamente medievali, a ometti e omoni che «non si voltano»
          (E. Montale, Forse un mattino). E se, nell’Amleto,
          Amleto resta a lungo intoccabile perché troppo amato dal popolo 
          (Atto IV, sc. 6), qui, nell’ombellico del Moderno, noi 
          della pazza folla amiamo noi stessi e qualunque cosa capiti, purché 
          mai ci pianti in asso nel mezzo d’un dilemma: ché “la stampa” non 
          capirebbe.
          
           Così, a pensarci, si rafforza 
          l’idea del moderno, come superstizione di un particolare tipo 
          di “medioevo”, idea che trovi nel molto rigoroso e tutt’altro che 
          filo-teen-agers 
          Manzoni (Adelchi), il quale 
          scrisse il suo Amleto sprofondandolo in un medioevo ancora più 
          drastico, genocida e contemporaneo. Da lì, fa dire alla 
          poco aristotelica tragedia che sempre sempre sempre sarà così: 
          ogni tanto qualche sparuta anima-ginestra, a contemplare un deserto 
          mefitico e immedicabile, che molto presto e molto ciecamente la 
          fagociterà in un unico gnam! (senza neppure un Orazio per la 
          futura foscoliana “memoria”).
          
          Stessa diagnosi in Simone Weil 
          lettrice dell’Iliade poema della forza (1939), 
          o, in versione regressiva e adrenalinica, in Guerre Stellari 
          di George Lucas (1971-2005), dove non il moderno ma il futuro è 
          medioevo più super-armi spaziali.
          
           
          
          Sempre negando ad Amleto il valore 
          di emblema del Moderno, René Girard offre una versione perfettamente 
          opposta a quella che qui hai appena letto: «Essendo ancora più sfasata 
          di quella di Shakespeare, la nostra epoca non può non produrre i più 
          sofisticati Poloni» (R. Girard, Shakespeare. Il teatro 
          dell’invidia, Milano 2002). Interessantissimo.