AMLETO: - Da
qualche tempo, Io non so perché, ho perso tutto il mio buonumore...
(Atto II, sc. 2)
«…i’ non so per
qual fato»
(F. Petrarca,
Canzoniere, CXXX)
«ch’i’ medesmo
non so quel ch'io mi voglio»
(F.
Petrarca, Canzoniere, CXXXII)
«I have of late - but
/ wherefore I know not- lost all my mirth, forgone all /
custom of exercise…». I
luoghi in cui una coscienza dice di sé che non sa che dirsi, se non
descriversi estranea e turbata, sono i centri stessi della
coscienza. Catullo che non sa perché ami e odi allo stesso
tempo (Carmina LXXXV) è fin troppo risolto; Dante
che inizia la storia della Selva Oscura dicendoci «Io non so ben ridir
com’i’ v’intrai» (Inferno, canto I, v. 10) parve secoli
dopo all’esperto Manganelli darci una definizione perfetta
dell’accesso alla palude della depressione; in Petrarca il «non
so» diventa un tropo inconfondibile, una radura in cui sempre ripiega
il labirinto come se fosse davvero questa la testa del suo polipo.
Anche perché, una volta che non sta
più sospeso alla corda del dovere dalle cento mollette delle decisioni
altrui, lo straccetto dell’Io casca subito stremato in terra, né c’è
chi lo sollevi. Quando non c’è più nessuno che ci dica cosa “Si” deve
fare e dire ed evitare, sarà certo finita la «tipica dittatura del Si»
(M. Heidegger, Essere e tempo, Torino 1955), ma che
stradaccia che si annuncia!
L’Esserci è
autenticamente se-Stesso solo nell’isolamento originario della
decisione tacita e votata all’angoscia. L’esser se-Stesso autentico,
essendo come tale tacito, non può dire “io-io”, ma “è”, nel
silenzio, l’ente gettato che può essere in quanto autentico.
(M. Heidegger,
Essere e tempo, Torino 1955)
Questo «essere come gettato
fondamento della nullità» (Ibid.), più urbanamente, come
dicono gli ermeneuti, lo leggi in Jaspers: «Amleto deve
addossarsi il tormento del contrasto tra la sua intima natura e il
ruolo che deve recitare, al punto che egli è costretto non solo a
vedersi come dall’esterno, ma, quasi sorprendendosi nell’errore, ad
autocondannarsi. E’ solo così che si spiegano i suoi giudizi su se
stesso.» (K. Jaspers, Sul tragico, Milano 2000)
Jaspers però minimizza un po’
troppo: perché questo «sorprendersi nell’errore», a questo punto, non
è più un accidente emendabile come un brufolo sul naso. Da adolescente
scrupoloso, Amleto scopre che al fare corrisponde l’errore; ma è
ancora troppo giovane e sguarnito per arrivare a sapere e sostenere
che Fare è Errare (E. Severino, A Cesare e a Dio,
Milano 2007), che la somma delle cose fatte sarà in ogni caso la
stessa di tutti gli errori: «in questo vasto dramma
esitazione è sinonimo di coscienza» (H. Bloom, Shakespeare,
Milano 2003), ma come se si avesse ancora fede che da qualche
parte esista un’azione giusta.
E invece niente, sghignazza il
pietoso Shakespeare:
- Un
carnefice dell’anima lo chiamò Robert Greene, disse Stephen. Non per
niente era figlio di un macellaio, che maneggiava la pesante mannaia e
si sputava sulle mani.
(J. Joyce,
Ulisse).
Forse la storia di Amleto è tutta
in questa ingestibile scoperta: «Non sappiamo fino a che punto
Shakespeare fosse scettico nei confronti del valore della personalità.
Per Amleto, l’io è un abisso, il caos di un nulla quasi totale. Per
Falstaff, l’io è tutto. Nell’atto V, Amleto trascende forse il proprio
nichilismo; ma non possiamo esserne certi quando guardiamo l’ambiguo
massacro che riduce la corte di Elsinore al damerino Osric, a
qualche comparsa e a Orazio, l’estraneo interno. Alla fine
Amleto si spoglia di tutte le sue ironie? Perché, in punto di morte,
dà il suo voto al bullo Fortebraccio, che spreca le vite dei
soldati nella battaglia per un terreno sterile troppo piccolo persino
per seppellire i cadaveri?» ( Ibid.).