"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 


n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

13.  In coscienza

 


  

AMLETO: - Da qualche tempo, Io non so perché, ho perso tutto il mio buonumore...

(Atto II, sc. 2)

 

«…i’ non so per qual fato»

(F. Petrarca, Canzoniere, CXXX)

 

«ch’i’ medesmo non so quel ch'io mi voglio»

(F. Petrarca, Canzoniere, CXXXII)

 

 

 

 

«I have of late - but / wherefore I know not- lost all my mirth, forgone all / custom of exercise…». I luoghi in cui una coscienza dice di sé che non sa che dirsi, se non descriversi estranea e turbata, sono i centri stessi della coscienza. Catullo che non sa perché ami e odi allo stesso tempo (Carmina LXXXV) è fin troppo risolto; Dante che inizia la storia della Selva Oscura dicendoci «Io non so ben ridir com’i’ v’intrai» (Inferno, canto I, v. 10)  parve secoli dopo all’esperto Manganelli darci una definizione perfetta dell’accesso alla palude della depressione; in Petrarca il «non so» diventa un tropo inconfondibile, una radura in cui sempre ripiega il labirinto come se fosse davvero questa la testa del suo polipo.

 

Anche perché, una volta che non sta più sospeso alla corda del dovere dalle cento mollette delle decisioni altrui, lo straccetto dell’Io casca subito stremato in terra, né c’è chi lo sollevi. Quando non c’è più nessuno che ci dica cosa “Si” deve fare e dire ed evitare, sarà certo finita la «tipica dittatura del Si» (M. Heidegger, Essere e tempo, Torino 1955), ma che stradaccia che si annuncia!

 

 

L’Esserci è autenticamente se-Stesso solo nell’isolamento originario della decisione tacita e votata all’angoscia. L’esser se-Stesso autentico, essendo come tale tacito, non può dire “io-io”, ma “è”, nel silenzio, l’ente gettato che può essere in quanto autentico.

(M. Heidegger, Essere e tempo, Torino 1955)

 

 

 

Questo «essere come gettato fondamento della nullità» (Ibid.), più urbanamente, come dicono gli ermeneuti, lo leggi in Jaspers: «Amleto deve addossarsi il tormento del contrasto tra la sua intima natura e il ruolo che deve recitare, al punto che egli è costretto non solo a vedersi come dall’esterno, ma, quasi sorprendendosi nell’errore, ad autocondannarsi. E’ solo così che si spiegano i suoi giudizi su se stesso.» (K. Jaspers, Sul tragico, Milano 2000)

Jaspers però minimizza un po’ troppo: perché questo «sorprendersi nell’errore», a questo punto, non è più un accidente emendabile come un brufolo sul naso. Da adolescente scrupoloso, Amleto scopre che al fare corrisponde l’errore; ma è ancora troppo giovane e sguarnito per arrivare a sapere e sostenere che Fare è Errare (E. Severino, A Cesare e a Dio, Milano 2007), che la somma delle cose fatte sarà in ogni caso la stessa di tutti gli errori: «in questo vasto dramma esitazione è sinonimo di coscienza» (H. Bloom, Shakespeare, Milano 2003), ma come se si avesse ancora fede che da qualche parte esista un’azione giusta.

E invece niente, sghignazza il pietoso Shakespeare:

 

- Un carnefice dell’anima lo chiamò Robert Greene, disse Stephen. Non per niente era figlio di un macellaio, che maneggiava la pesante mannaia e si sputava sulle mani.

(J. Joyce, Ulisse).

 

Forse la storia di Amleto è tutta in questa ingestibile scoperta: «Non sappiamo fino a che punto Shakespeare fosse scettico nei confronti del valore della personalità. Per Amleto, l’io è un abisso, il caos di un nulla quasi totale. Per Falstaff, l’io è tutto. Nell’atto V, Amleto trascende forse il proprio nichilismo; ma non possiamo esserne certi quando guardiamo l’ambiguo massacro che riduce la corte di Elsinore al damerino Osric, a qualche comparsa e a Orazio, l’estraneo interno. Alla fine Amleto si spoglia di tutte le sue ironie? Perché, in punto di morte, dà il suo voto al bullo Fortebraccio, che spreca le vite dei soldati nella battaglia per un terreno sterile troppo piccolo persino per seppellire i cadaveri?» ( Ibid.).


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