BEETHOVEN. Cadere comunque in deliquio quando viene
eseguita una delle sue opere.
«Che architettura!»
«E' quella sua arte del legare!»
(G. Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni)
Se misteriosa è la ragione di ogni
ammirazione, non lo è da meno la frigidità. Perché è bello (o
brutto) Amleto? Più si cercherà di darne ragione, più
ci s'impanierà tra aporie stente e frasi che si farebbe bene a
sospendere a metà. Amleto è bello perché… al massimo
dell’irritazione, si potrà alzare i decibel delle tautologie per
ribadire – qualunque esso sia – un delirio.
Sentirsi forti poi dell'essere eco
di un'opinione di tutti – stiamo discutendo Shakespeare?! - è
un trucco perfino violento: si ostenta il ringhio del branco in coro
al solitario che vorrebbe - cosa di più mite? - essere solo
ragionevolmente convinto di qualunque possibile bene a proposito
di Shakespeare. Ma nessuna delle due parti è innocente: ovvio che,
sul piano della persuasione, vinca sempre il disamore che
sfida – subdola malizia dei disincantati – quella cosa flebile che è
una ragione non più che ragionevole a prendere il campo a un grado
zero di piacere: armi impari.
In realtà, come nelle tragedie,
alla fine non si salva nessuno, perché la ragione e i suoi metodi
sono indifferenti sia all’amore che al disamore, e se non si può
dimostrare la bellezza di niente lo stesso vale per la bruttezza.
Quando Ludwig Wittgenstein
(Pensieri diversi, Milano 1980) scrive: «“Il grande
cuore di Beethoven” - nessuno potrebbe dire “il grande cuore di
Shakespeare”», lui stesso saprà di non aver scritto niente che non
possa essere capovolto, o anche negato del tutto: potendo apparire
altrettanto evidente e ingiustificabile che sia Beethoven che
Shakespeare che Wittgenstein non abbiano alcun cuore.
Qui non sono buone Muse né
l’imbarazzo né la logica, essendo tutte le arti tra quelle cose che
se non si amano non si capiscono. Ogni tanto pare, anche restando
sul suo modo di procedere, che Wittgenstein confonda i piani. - Per
esempio quando scrive:
«Quando, ad
esempio, sento le espressioni ammirate che per secoli sono state
dedicate a Shakespeare da grandi uomini, non posso sottrarmi al
sospetto che quelle lodi siano state solo convenzionali.»
E se è indubitabile che «migliaia
di professori di letteratura» lo spacciano nelle scuole
dell'universo lodandolo «senza comprenderlo e per ragioni
sbagliate», questo avrà a che fare certo con una certa ontologica
povertà di tutti i corpi docenti, ma soprattutto colf atto che tutte
le ragioni sono sbagliate.
Quel tipo di mistificazione che è
proprio di ogni ammirazione unanime corrisponde col grado di
consenso ecumenico proprio dei cosiddetti classici.
Manganelli lo sapeva così bene da consigliare di leggere ogni
maggiore come un minore (la Divina Commedia come I Tre
Moschettieri!), per essere finalmente soli col testo,
sufficientemente intimi e clandestini per davvero esserci.
Un uomo intelligente che si sente
costretto dalla sua stessa onestà a mantenersi in una posizione
minoritaria vedrà facilmente i difetti della maggioranza. Lì non
avrà torto. La cosa lo porterà a farsi ancora più minoritario di
prima, acquisendo nel tempo ragioni sempre più solide a favore della
sua differenza dalla massa degli altri. Quanto meno, perché lui avrà
affrontato l’avventura dei suoi pensieri con più cuore di chi ama i
consensi pigri. Ma in realtà non c'è luogo che non rischi il
ridicolo: «Ho bisogno dell'autorità di un Milton per essere
veramente convinto. Di lui posso presumere che non fosse
corruttibile.» Corruttibile?
Ma non c'è nessun Milton
incorruttibile abbastanza, e qui basta leggere Wittgenstein come lui
leggeva Il ramo d'oro di Frazer (Milano, 1992).
Provando e riprovando, arriva giusto sulla soglia di una – ma non più che eventuale -
ammirazione astratta e teorica, fredda come la presa d'atto di
qualcosa che semplicemente non si può evitare che sia, ma che in
realtà per lui non è masi stata:
«Si potrebbe
dire che Shakespeare mostri la danza delle passioni umane. Perciò
dev'essere obiettivo, altrimenti non la mostrerebbe - se mai ne
parlerebbe. Ma queste passioni ce le mostra mentre danzano, non
naturalisticamente.»
… quel si potrebbe dire non
è tutto un programma?
E come stabilire una gerarchia che
non sia ideologica tra naturalismo e danza?
Tutte le volte che Wittgenstein
prova (pare proprio nel senso dell'esperimento) a dire
bene di Shakespeare è cercando di afferrare una sua legge – una
legge! - segreta, che però ogni volta, come ipotizzata, gli
sfugge:
«In senso
ordinario, le similitudini di Shakespeare sono cattive. Quindi,
se ciò nonostante esse sono buone - e io non so se lo siano -, è
chiaro che fanno legge a sé. Per esempio potrebbe essere il loro
suono [Klang] a renderle plausibili e veritiere.»
«Non è
che Shakespeare ritragga particolarmente bene i tipi umani e
pertanto sia veritiero. Shakespeare non è fedele alla natura. Ha
invece una mano così agile e un tratto così personale che
ciascuno dei suoi personaggi appare significativo, degno di
essere visto».
Si ammetterà che non sono grandi
passi avanti rispetto alla retorica dei «professori» che
spacciano Shakespeare «senza comprenderlo e per ragioni sbagliate».
Il punto è che stiamo spiando
un tentativo di comprensione della bellezza in assenza di piacere.
Come extraterrestri che cercano di capire il piacere sessuale quando
loro si riproducono con un quantum di pura forza del pensiero.
Anche se Wittgenstein non crede
nella psicanalisi, la cosa sa di compensazione: non provando
piacere, cerca la legge del piacere: ma una legge è
solo una procedura di controllo, di verificabilità e di previsione:
un marchingegno da cui, che sia Dante o Céline o Bruno Vespa, non
si salva per fortuna nessuno.
All’opposto della sempre politica
legge, c’è la «natura asociale del piacere» vero (R.
Barthes, Il piacere del testo), e Wittgenstein ha ragione
a non credere nella verità di un’autentica ragione sociale
dell’amore per Shakespeare. L’errore, volendo, è scrivere
Shakespeare dove andrebbe scritto Letteratura.
Un azzardo più interessante è
questo:
«Un sogno è
composto i un modo tutto sbagliato, assurdo, eppure giustissimo: in
questa strana composizione desta un'impressione. Perché? Non lo so.
E se Shakespeare è grande, come di lui si dice, allora si deve poter
dire di lui: è tutto falso, ma quadra - eppure è tutto giusto
secondo una legge sua propria.
Ci si potrebbe
esprimere anche così: se Shakespeare è grande, può esserlo solo
nella massa dei suoi drammi, che si creano una lingua e un mondo del
tutto peculiari. Quindi Shakespeare è del tutto irrealistico.
(come un sogno).»
Per l'autore che concluse la
carriera facendo dire nella Tempesta che siam fatti
della materia di cui son fatti i sogni, andrà certo benissimo.
Wittgenstein, che è uno degli
autori più onesti che si possano leggere, anche quando mette in
gioco la sua capacità di leggere quei sogni, bara sempre un
po’, o almeno bara il metodo che s’è scelto:
«Che io non
capisca [Shakespeare] si spiegherebbe con il fatto che non so
leggerlo con leggerezza. Non so leggerlo, cioè, come si
guarda uno splendido paesaggio.»
Si danno per scontate cose
sbagliate.
Non c'è dell'arroganza a
pensare che chi ami Shakespeare lo faccia come se fosse un
paesaggio? Non è addirittura proprio questo uno dei tautologici modi
dei «professori»? Un paesaggio… Viene in mente Goethe che
diceva che anche il più fantasmagorico dei tramonti, dopo cinque
minuti, stufa.
Shakespeare da leggere come se
fosse paesaggio, e quindi natura, - vedi il paradosso
- era il modo sublime ed esaltato dei romantici, che quando aprivano
un libro del Bardo, come se fosse il volume con le formule del mago
Atlante, avevano la sensazione di squadernare trombe d'aria, oceani
in tempesta e raffiche sulle brughiere. Wittgenstein non dice poi
neppure natura, ma appunto paesaggio – che sembra
tanto avvicinarci alla sua riduzione borghese a cartolina.
E infatti, che farne di una
cartolina:
«Verso
Shakespeare potrei avere solo un'ammirazione stupefatta: ma non
saprei mica cavarne qualcosa».
Cavarne qualcosa è ciò che un signore ecologicamente educato mai pretenderebbe di fare
con un paesaggio: il meglio che si possa fare è lasciarlo lì così
com’è. E questo ci rimanda alla casella di partenza:
«Capisco come
si possa esserne ammirati e chiamarla l'arte per eccellenza, ma a me
non piace.»
«Quando si è artisti e si creano
film è molto importante non essere logici. Bisogna essere
incoerenti. Se si è logici la bellezza ti sfugge, scompare dalle tue
opere. Dal punto di vista delle emozioni, bisogna essere illogici, è
proibito non esserlo. Ma se si ha fiducia nelle proprie emozioni,
allora si può essere del tutto incoerenti».
Quest’ultima frase non è
evidentemente di Wittgenstein, ma dell’ultima intervista che
rilasciò Ingmar Bergman e risponde da sola a tutto il metodo
sopra illustrato.
Poche righe dopo l'ultima
annotazione su Shakespeare, leggiamo questo: «Se dunque vuoi
rimanere nel religioso, devi lottare». Forse tra i pensieri
diversi di questo libro non libro (come quasi tutti i suoi)
le relazioni sono labili quanto lo consente il fatto di essere
scritte dallo stesso uomo nello stesso periodo della sua vita:
dunque anche nulle. Ma azzardiamo, e torniamo alla prima frase che
abbiamo riportato, quella che ci sembrava meno giustificabile:
«“Il grande cuore di Beethoven” - nessuno potrebbe dire “il grande
cuore di Shakespeare”»: quel grande cuore è il cuore
religioso? Che Shakespeare sia forse lo scrittore meno religioso che
sia riuscito a intrufolarsi nel Canone, è un pensiero già pensato, e
un sospetto necessario e ineliminabile passando da Falstaff, a
Macbeth, a Prospero - et cetera.
E' il religioso il problema?
Vedi anche, nel
numero del c.s. su Valéry:
Il piacere di Heisenberg