TERZA VOCE – Quel signore
pittoresco sembra Amleto.
QUARTA VOCE – Ovviamente
rappresenta il mio lato raziocinante e dubbioso. Manca di rapporto con
gli istinti.»
(G.
Manganelli, High tea, in Tragedie da leggere, Torino 2005)
«Noi torceremmo il collo ai nostri padri e giaceremmo con le nostre
madri»
(D. Diderot, Il nipote di Rameau)
Quando il gioco si fa duro, Lacan è come
bomba-fine-di-mondo in Dottor Stranamore di Kubrick:
«il dramma di Amleto è una specie di apparato (…) dove è articolato il
desiderio dell’uomo e precisamente nelle coordinate che Freud
mette per noi in luce, cioè l’Edipo e la castrazione»
(Jacques Lacan, Seminario VI,
Il desiderio e la sua interpretazione, 1958-59, Roma 1989)
Nell’Atto Zero di Amleto, e dunque
nell’innominabile prima dell’Atto Primo, c’è il bambino circonfuso da
una paradisiaca mamma-universo. Anche se non ha letto il
Simposio di Platone, sa che i reciprocamente manchevoli
sono quelli che veramente si attraggono e che saldandosi si
completano. Il bambino sarà dunque il fallo che alla madre manca!
Sarebbe un diletto perfetto e non un delitto imperfetto, se il Padre
non intervenisse quale suo Interdetto che lo priva dell’oggetto del
suo desiderio. Ecco il bivio! Saprà il nostro eroe superare la ferita
e, accedendo al «Nome-del-Padre», identificarsi col confiscatore del
corpo materno e, cessando di «essere» il fallo della mamma divenire
l’uomo che «ha» il fallo? – Se l’ineludibile azzardo fallisse, il
bambino rimarrebbe dolente a identificarsi come manchevole nostalgico
fallo della madre, a lei dunque del tutto sottomesso, incapace per
sempre di costituirsi come soggetto capace di Parola, Legge,
Discorso, Norma!
Dovrebbe essere a questo punto
evidente che per Lacan «fallo», ben altro che il «pene», è il
significante di un insieme di «effetti di significato» (J.
Lacan, La significazione del fallo, in Scritti,
Torino1974), quelli nelle righe appena sopra elencati.
La soluzione del problema della
castrazione [del figlio in quanto fallo fantasmatico della madre]
non consiste nel dilemma: averlo o non averlo [il fallo]; il
soggetto deve anzitutto riconoscere che non lo è.
(Seminari di Jacques Lacan
(1956-1959) raccolti e redatti da J. B. Pontalis, Parma 1978)
Amleto resta al di qua del salto. E
qui c’entra la mamma perché, per accedere al miracolo dell’edipica
castrazione che emancipa dal corpo materno per fare dell’uomo quello
che «ha» il fallo, la madre deve prima aver desiderato il figlio
come «fallo», mentre Amleto mai è stata «il
fallo-desiderato-dalla-madre».
Ovvero: «Il compito finale della
madre è quello di deludere gradualmente il bambino, ma essa non ha
speranza di successo se non è riuscita ad offrire, all’inizio,
sufficienti occasioni d’illusione» (D. W. Winnicott, “Oggetti
transizionali e fenomeni transizionali”, in Dalla pediatria alla
psicoanalisi, Firenze 1958).
Madre tutta «genitale», non
«desiderano il fallo, ma solo il pene (…) per il soddisfacimento
diretto di un bisogno e nient’altro» (Jacques Lacan, Seminario
VI, Il desiderio e la sua interpretazione, 1958-59, Roma 1989),
Gertrude non ha dunque mai sognato Amleto, il quale, non
essendo mai stato il fallo della madre, mai potrà accedere alla
castrazione che lo consegnerebbe finalmente a se stesso. Da questo
nodo mai sciolto, o mai neppure annodato, nasce «la condizione di un
vivente che non è (ancora) un soggetto, dal momento che in ciò che
deve costituire il suo inconscio manca il significante del fallo,
manca la castrazione come cancellazione del desiderio di essere il
fallo per l’Altro» (R. Galiani, Amleto e l’Amleto nella cultura
psicoanalitica, Torino 1997).
Del tutto evidente, questa
tragedia prima della tragedia, quando si è sottoposti alle mitragliate
del principe sulla sessualità lubrica della femmina, dove non c’è un
Io a parlare, ma l’anonimia di un moralismo senza soggetto: voce che
si esagita proprio per compensare il nulla da cui viene, stereotipata
impersonalità di quella che Heidegger chiama «la dittatura del Si»
(M. Heidegger, Essere e
Tempo, Torino 1955).
Estromesso
– così ai suoi occhi - definitivamente per il nuovo matrimonio
dall’orizzonte amoroso della madre, Amleto «non si incontra con il suo
proprio desiderio, perché non ha più desiderio, dal momento che da lui
Ofelia è stata rigettata. (…) Tutto avviene come se la via di ritorno
lo riconducesse (…) all’articolazione dell’Altro, come se potesse
ricevere altro messaggio che il significato dell’Altro, cioè la
risposta della madre: sono quello che sono (…), sono una vera genitale
(…) per parte mia, non conosco il lutto» (Jacques Lacan,
Seminario VI, Il desiderio e la sua interpretazione, 1958-59,
Roma 1989).
Tutto consapevolmente subìto in
Strindberg:
«Questa nostalgia della madre,
questa solitudine lo avrebbe seguito per il resto della vita. (…) Non
fu mai se stesso, mai veramente libero, mai un individuo compiuto.
Rimase un vischio, che non cresce senza l’appoggio di un albero»
(A. Strindberg, Il figlio
della serva)