"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 13, settembre 2007 

 


 

n. 13 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 13

 

 

59.  Testi avventurosi

 

 


«Si invoca una drammaturgia a monte, autori che scrivono copioni. Ma son pazzi?»

 (CB in: U. Artioli – C. Bene, Un Dio assente, Milano 2006)

 

«Nel caso dei diversi Amleto che qui prenderemo in considerazione non è rimasto alcun copione di scena…»

(A. Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, Pisa 2002)

 

«…non c’era un copione assolutamente, c’erano bigliettini…»

(Colloquio con Carla Tatò, cit. in A. Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, Firenze 2004)

 

 

Che Shakespeare sia «soprattutto Teatro, e del Teatro abbia tutta l’impermanenza» (G. Melchiori, Shakespeare, Roma-Bari, 2005), lo si vede per esempio Nel bel mezzo di un gelido inverno (1995) di Branagh (più bello del suo Amleto integrale): come si pensa di mettere in scena Amleto, si sa subito che molto dovrà lavorare «Signora Forbice» per ridurre il testo a misure giuste per un’onesta compagnia e sopportabile per ogni buon pubblico pagante. Non si scrive infatti così tanto impunemente, e certo, se fosse stato il conciso Macbeth, al quale pare addirittura mancare qualcosa tanto svelto è, il problema non si porrebbe con la stessa ineluttabilità.

 

Quanto liberi si possa essere col dramma da portare in scena lo vedi proprio nel caso di Amleto che chiede al primo attore di mettere la sera in scena davanti al re L'assassinio di Gonzago ma modificato (è la Trappola per topi) che, dice il principe all’apice del suo complotto – con « una tirata di dodici o sedici versi che butterei giù e inserirei nel testo» (Atto II, sc. 2). Non solo perché è richiesta di principe il primo attore non ha nulla da obiettare, ma, come racconta benissimo Melchiori (op. cit.), è pratica comune, continua, ovvia.

 

Tutta la storia dell’Amleto è storia dei suoi riadattamenti, con tagli e inserti, tutt’altro che scandalosi in tempi in cui Signora Forbice era necessaria al mestiere ben più di Madonna Filologia. La celeberrima messa in scena che leggi nel Wilhelm Meister è un esempio classico: «Il nostro amico stava per cadere nella disperazione quando Serlo una volta, dopo un lungo litigio, gli consigliò semplicemente di risolversi presto a prendere la penna, a togliere dalla tragedia quello che non andava né poteva andare, a riunire più personaggi in uno; e se non si sentiva abbastanza esperto o non aveva cuore di farlo, lasciasse quel lavoro a lui, che lo avrebbe sbrigato prestissimo» (W. Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, Milano 2006).

 

La drammaturgia, dunque, come scrittura che finisce solo con la messa in scena, e che sulla scena come un mandala si dà e sparisce, non è uno scandalo dell’avanguardia ma il teatro.

A conti fatti, ancora una volta Carmelo Bene, da postumo e dunque non da attore ma da autore, fa sentire le parole più pratiche e pulite: «..ho capito che conta solo il presente: il teatro, soprattutto, è solo hic et nunc, una specie di vocazione perpetua al fallimento» (C. Bene in F. Cordelli, Carmelamleto Bene uno “spudorato” in scena al Quirino, “Paese Sera”, 8 gennaio 1976). Lo stesso, di fatto, che leggi in Melchiori: «la scelta del testo spetta sempre in ultima analisi e di volta in volta non all’autore, non all’uomo di lettere nel suo studio, ma all’attore, al regista e ai suoi collaboratori che realizzavano quel testo in quanto creazione collettiva» (G. Melchiori, Op. cit.).

 

Nel teatro continua la scrittura di scena cominciata con la scrittura del copione: scrittura alla fine sempre mancata, rispetto a un copione che è sempre scrittura mai finita.


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