«Si invoca una
drammaturgia a monte, autori che scrivono copioni. Ma son pazzi?»
(CB in: U.
Artioli – C. Bene, Un Dio assente, Milano 2006)
«Nel caso dei
diversi Amleto che qui prenderemo in considerazione non è
rimasto alcun copione di scena…»
(A. Petrini,
Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, Pisa 2002)
«…non c’era un
copione assolutamente, c’erano bigliettini…»
(Colloquio con
Carla Tatò, cit. in A. Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per
Carmelo Bene, Firenze 2004)
Che Shakespeare sia «soprattutto
Teatro, e del Teatro abbia tutta l’impermanenza» (G. Melchiori,
Shakespeare, Roma-Bari, 2005), lo si vede per esempio Nel
bel mezzo di un gelido inverno (1995) di Branagh
(più bello del suo Amleto integrale): come si pensa di
mettere in scena Amleto, si sa subito che molto dovrà
lavorare «Signora Forbice» per ridurre il testo a misure giuste per
un’onesta compagnia e sopportabile per ogni buon pubblico pagante. Non
si scrive infatti così tanto impunemente, e certo, se fosse
stato il conciso Macbeth, al quale pare addirittura
mancare qualcosa tanto svelto è, il problema non si porrebbe con la
stessa ineluttabilità.
Quanto liberi si possa essere col
dramma da portare in scena lo vedi proprio nel caso di Amleto che
chiede al primo attore di mettere la sera in scena davanti al re
L'assassinio di Gonzago ma modificato (è la
Trappola per topi) che,
dice il principe all’apice del suo complotto – con « una tirata di
dodici o sedici versi che butterei giù e inserirei nel testo» (Atto
II, sc. 2). Non solo perché è richiesta di principe il primo
attore non ha nulla da obiettare, ma, come racconta benissimo
Melchiori
(op. cit.),
è pratica comune, continua, ovvia.
Tutta la storia dell’Amleto
è storia dei suoi riadattamenti, con tagli e inserti, tutt’altro che
scandalosi in tempi in cui Signora Forbice era necessaria al mestiere
ben più di Madonna Filologia. La celeberrima messa in scena che leggi
nel Wilhelm Meister è un esempio classico: «Il nostro
amico stava per cadere nella disperazione quando Serlo una volta, dopo
un lungo litigio, gli consigliò semplicemente di risolversi presto a
prendere la penna, a togliere dalla tragedia quello che non andava né
poteva andare, a riunire più personaggi in uno; e se non si sentiva
abbastanza esperto o non aveva cuore di farlo, lasciasse quel lavoro a
lui, che lo avrebbe sbrigato prestissimo» (W. Goethe, Wilhelm
Meister. Gli anni dell’apprendistato, Milano 2006).
La drammaturgia, dunque, come
scrittura che finisce solo con la messa in scena, e che sulla scena
come un mandala si dà e sparisce, non è uno scandalo dell’avanguardia
ma il teatro.
A conti fatti, ancora una volta
Carmelo Bene, da postumo e
dunque non da attore ma da autore, fa sentire le parole più pratiche e
pulite: «..ho capito che conta solo il presente: il teatro,
soprattutto, è solo hic et nunc, una specie di vocazione perpetua al
fallimento» (C. Bene in F. Cordelli, Carmelamleto Bene uno
“spudorato” in scena al Quirino, “Paese Sera”, 8 gennaio 1976).
Lo stesso, di fatto, che leggi in Melchiori: «la scelta del testo
spetta sempre in ultima analisi e di volta in volta non all’autore,
non all’uomo di lettere nel suo studio, ma all’attore, al regista e ai
suoi collaboratori che realizzavano quel testo in quanto creazione
collettiva» (G. Melchiori, Op. cit.).
Nel teatro
continua la scrittura di scena cominciata con la scrittura del
copione: scrittura alla fine sempre mancata, rispetto a un copione che
è sempre scrittura mai finita.