«Essere o
non essere…»
(Atto III;
sc. 1)
Il frastagliato sfilacciato
arrotolato mondo a enne dimensioni ricondotto a drastici
dilemmi senza fughe fuori del sì e del no è l’esigenza di certi
spiriti, e magari di certi tempi, impazienti, eroici e tragici. Tutto
un propaginarsi di drastici dilemmi è il pratico Machiavelli. A vedere
tutto ridotto a un’antitesi, si rischia di ritrovarsi troppo in posa,
con voce impostata di pontificare sul mondo quasi fosse semplice e
disponibile come una mela in mano; quando invece, come si sa, anche
l’istante di una farfalla a Buenos Aires genera nodi di Gordio elevati
a potenze incommensurabili. Altra seccatura delle antitesi di solito
reperibili sul mercato è che sono false: neppure troppo celano infatti
la domanda retorica (“qui o si fa l’Italia o si muore”) che
evidentemente è il contrario di una autentica onesta antitesi. -
Falstaff non ne ha, Amleto non ne ha di retoriche. Le
antitesi di Amleto sono oneste e quindi rare: sfilze di aporie
incurabili. Più che all’azione, spingono all’imbarazzo. Se ne deduce
che l’evangelico il sì sia sì e il no no (e il resto al
maligno) è impossibile se non si è Dio o almeno, come sa dire Jung,
capaci di una scelta tragica, nella quale un bel pezzo di sé nella
scelta si perde senza rimedio. – Le aporie di Amleto sollecitano lo
spettatore-lettore ad essere ipocrita, a far finta di niente: di
fronte all’Essere o non Essere, egli preferirà
concentrarsi sul Do di petto e la performance
dell’attore, senza dunque ascoltare una parola. Come se lo recitasse
in inglese, e dunque come se fosse una canzone dei Beatles, si
estasierà di una melodia senza significato. Per pura pigrizia,
si ritroverà così ad essere molto à la page: Senza Lacan o De
Saussure o Carmelo Bene, ascolterà chissà cosa, in realtà:
“Essere o non Essere?” Indovina merlo: « Io non ho mai capito
che cosa voleva Amleto» (Ettore
Petrolini); è
una domanda che non ci si immagina neppure al cospetto dell’oltremondo
della piumata dea egizia dell’ultimo imbarazzantissimo giudizio.