«La storia di 
          Amleto è la storia di un testo che non esiste.»
          
          
          (G. Melchiori, 
          intervista a Repubblica)
          
          
           
          
          
          I posteri si vendicano sempre delle avanguardie. Nata come remake di 
          una tragedia di vendetta, ma totalmente sgretolando il senso e 
          le certezze teatrali morali e metafisiche della storia come la si 
          trovava nell’Historia Danica di 
          
          Saxo Grammaticus (1514), l’Amleto
          di Shakespeare diventa quasi subito dopo il canovaccio per un 
          ritorno alle regole del genere liberissimamente tradito: al senso 
          sicuro della classica e tetragona tragedia di vendetta che 
          soprattutto con la Hispanish Tragedy di Thomas Kid
          aveva trovato, alla fine del secolo, l’archetipo 
          potentissimo.
          
          
           
          
          
          Sulla scia di Thomas Rymer (Tragedies of he Last Age, 
          1677), che sprezzava Shakespeare per quasi tutto: la 
          disobbedienza alle unità aristoteliche, il caos tra tragedia e 
          commedia, la lingua aspra e obsoleta, nonché la “moral indecency” di 
          una drammaturgia  che mostra sovrani criminogeni perfino felicemente e 
          innocenti impunemente massacrati, al punto da far dubitare che la 
          Provvidenza qualcosa faccia per il bene delle creature sue dilette; 
          Jeremy Collier, in A short View of the Immortality and the 
          Profaneness of the English Stage (1698), attacca soprattutto
          Ofelia, alla quale l’autore riserva la sorte di una follia 
          invereconda, invece di farla morire in tempo per restare virginale 
          almeno nel ricordo:
          
          
           
          
          
          “Poiché era deciso ad annegar la dama come un cucciolo, 
          avrebbe dovuto farla finire in acqua un po’ prima. Tenerla in vita 
          solo per macchiarne la Reputazione ed esibire il Fetore del suo fiato 
          è stato molto crudele.”
          
          
           
          
          …poi dicono che i maleducati li ha 
          inventati la televisione. 
          
          In generale, dalla riapertura dei 
          teatri dopo gli anni del proibizionismo puritano di Cromwell, 
          correzioni a iosa perché il dramma, vitale incorreggibilmente, ritorni 
          però urbanizzato nell’alveo del senso comune. Ecco lo gnommero 
          complicatissimo mirabilmente riassunto: 
          
           
          
          «Con la Restaurazione, il dramma 
          assoggettato a convenienti tagli, sempre più si caratterizza per il 
          suo protagonista energico, privo di dubbi e pronto alla vendetta. 
          Nella versione di Betterton, iterata per cinquant’anni dal 1661 
          al 1709, l’Amleto era una tragedia eroica, in quella di 
          David Garrick (1742-1776) subì la riscrittura di tutto il quinto 
          atto, con l’eliminazione, tra l’altro, della melanconica scena del 
          cimitero, mentre a Orazio veniva affidata la restaurazione 
          dell’ordine. La versione di Jean-François Ducis in Francia 
          (1774), un rifacimento che durò per quarant’anni, faceva di Amleto 
          un vincitore che assedia e uccide l’usurpatore Claudio, per sposare 
          infine Ofelia, e similmente quella di Franz Heufeld (1774) 
          consentiva ad Amleto di realizzare la vendetta e sopravvivere”. Nel 
          Settecento, le cose cambiano ma non troppo: “Alla formula “In spite 
          of” ora si affianca quella “because of”, per la quale è 
          proprio nell’associazione del genio con la mancanza di letture e 
          esempi da imitare che si identificano le cause della grandezza di un 
          “wild Shakespeare” come James Thomson lo aveva definito nel suo 
          poema The Seasons nel 1727 (…). Ma ancora non 
          senza costi ideologici, non senza che si rimproveri a Shakespeare di 
          ignorare ad esempio la poetic justice e di fare nell’Amleto 
          insieme il principe e i suoi nemici nella scena finale. (…) Il 
          binomio “Beauties and Faults”, “Bellezze e Pecche”, o “jewels amid 
          rubbish”, “gioielli in mezzo alla spazzatura”, continua ad 
          imperversare, anche se i difetti sono divenuti la condizione stessa 
          della manifestazione del suo genio. Amleto raccoglie sempre la 
          maggior quantità di critiche: l’attacco di Voltaire nel 1761, 
          nel suo Appel à toutes les nations d’Europe, riprendendo 
          la sua prefazione a Sémiramis, si accanisce contro scene 
          come quella dei becchini nel cimitero, riflettendo i tenaci 
          presupposti neoclassici che rifiutano la commistione del comico col 
          tragico. E la famosa messa in scena nel 1772 di un attore 
          celebre come Garrick distrusse (…) buona parte dell’atto quarto 
          e l’intero atto quinto per “liberare dalla spazzatura” la “nobile 
          opera di Shakespeare”,  che così stravolta tenne cartellone per otto 
          anni e 37 recite.» 
          
          (G. Restivo, Percorsi della 
          critica su Amleto, in Tradurre/Interpretare “Amleto”, 
          Bologna 2002).