«L’uomo
giacobiano è più intelligente dell’uomo elisabettiano.»
(G. Baldini,
Manualetto shakespeariano, Torino 1967)
«La differenza fra gusto
elisabettiano e gusto giacobiano, si può anche assimilare a quella
fra uno stadio di eccessivo ottimismo e un altro di anche troppo
improvviso, se non eccessivo pessimismo: la spensierata allegria
della corte di Elisabetta da una parte, e la tristezza e
cupezza addirittura di quella di Giacomo I dall’altra. Ma la
differenza principale fra l’arte barocca e l’arte del ritardato e
bastardo Rinascimento inglese deve cogliersi nel fatto che quella
riusciva a vedere e a sorprendere i momenti fuggevoli d’una Natura
in perpetuo mutamento, in travaglio di conoscenza e approfondimento
di se stessa, mentre questa postulava una Natura perennemente
identica. Tipicamente elisabettiano, perché tenacemente legato a
questa solida e ferma immagine della Natura, è, ad esempio, il mondo
di Spenser, la lucida tornitura della sua stanza, espressione
del suo occhio sereno e penetrante, così come elisabettiane erano
anche le volute elaborate e stancamente voluttuose dello stile
eufuistico, o la generosa difesa della poesia come momento
eroico dello spirito, in Sir Philip Sidney. Tipicamente
giacobiana, invece, sarà la concisione spezzata fino a essere
oscura, della poesia di
Donne, la prosa aforistica e scettica
di Bacon, la commedia satirica e pessimistica di Ben Jonson.
Pure, forse, soltanto Shakespeare
riuscirà a completare in sé la parabola essenziale del passaggio tra
queste due posizioni.
(…)
«Il mondo che si muove attorno a
Falstaff è ancora un mondo solido, ben definito, una società, se non
altro, che sfrutta le ultime occasioni offerte da una vecchia
collaudata struttura; una società che, anche se per poco, regge
tuttavia. E, difatto, in Henry V vediamo gli ultimi
bagliori del suo trionfo. Ma Falstaff muore, per l’appunto, in quel
dramma e questo si conclude con un sonetto in cui il poeta, dopo
aver accompagnato nella camera nuziale il re e la principessa sposi
(…) s’affretta a mettere in guardia il pubblico che la felicità di
coloro ebbe durata breve, che il susseguente regno di Enrico VI
ricondusse stragi e discordia in seno al paese e che l’ordine fu
messo a soqquadro. Quel disordine, quel soqquadro,
Shakespeare non aveva più bisogno di metterli in scena, allora,
perché avevano sollecitato, seppur con spirito tutt’affatto diverso,
le sue immagini giovanili di poeta drammatico nelle tre parti di
Henry VI. Ma il soqquadro a cui vorrà volgere la mente e
il canto allo scoccare del secolo non sarà più quello delle lotte
civili del proprio paese, o meglio questo potrà avere, per lui, un
valore tutt’affatto simbolico: egli s’avvedrà, infatti, d’un
soqquadro non più soltanto esterno, ma anche interno
al protagonista della storia ch’egli era venuto narrando, a
quell’uomo che era sempre stato al centro dei suoi affetti, delle
sue cure.
Hamlet
nasce nello stesso
momento in cui Shakespeare intuisce la natura e la portata di
questo soqquadro…»
(da: G. Baldini, Manualetto
shakespeariano, Torino 1967)