Alla regalità corrisponda sempre una
perplessità! Soprattutto per chi diventa re non per secolare diritto
di schiatta, ma per qualche delittuosa concitazione della cronaca, al
placarsi d’un vortice di crimini e di casi tutti sempre grossolani,
dovrebbe corrispondere l’esercizio di lunghi istanti di straniata
meraviglia. Questa confessata fragilità rispetto alla smisuratezza
degli eventi, potrebbe essere un bene per lo stesso potere che
si vorrà certo conservare: aiuterà l’attenzione e la prudenza.
Il neo-monarca non opponga
resistenza: occupato un trono di certo strenuamente voluto, assapori
l’istante del timor panico: si tenga all’alba d’uno stupore che, per
sua fortuna, solo fino a un certo punto l’ironia esorcizzerà («Ah,
sono re?», Riccardo III, Atto IV, sc. 2). Il re nuovo
certo si ripromette, e già questa è un’ammissione di colpa, di essere
volenteroso e perfino pio – tutti i delitti alle spalle! -, e cerca di
emanciparsi dallo spaesamento del parvenu immaginando che una
lunga stagione di implacabile buongoverno giustificherà agli occhi del
regno la sua fortuna abnorme: programma generico e vasto a sufficienza
da tener alta l’adrenalina della prima stagioncella di governo. Ma
cosa nella vita è semplice come una promessa al volo adempiuta? Si
cerca almeno di conservare una posa tra spigoli, trappole, vicoli
ciechi e panie, in stanze piene di bottoni che non comandano nemmeno
l’ascensore. Nessuno tra servi ministri e funzionari che capisca fino
in fondo un ordine. Io parlo chiaro e loro, stralunati, intendono
enigmi. Mi circondano allora di esperti del mio dire, di traduttori,
glossatori, di parafrasanti, e più questa pletora di ladri aumenta
meno mi si capisce. Fossi almeno una donna, una regina: avrebbero più
paura. - Il re dunque dimentica che gli uomini, come i computer, non
fanno quello che vuoi, ma quello che gli dici: sono letterali,
impiegatizi e ladri: immaginassero almeno quanto, sarebbero già meno
ladri. Allora, la cediamo questa misera corona? «Sì, no; no, sì…» (Riccardo
II, Atto IV, sc. 1). - No.
E’ tutto qua l’irrinunciabile
potere? E questa è un’altra cosa da non dire troppo in giro. Chi
capirebbe? Cinico e melanconico, il re si compiace affettando
estraneità alla Gran Macchina, e nostalgie impossibili: «O Dio! Che
vita felice se fossi un semplice campagnuolo!» (Enrico VI parte
III, Atto II, sc. 2). Ma è solo una carezza a se stesso, una
mitezza falsa, un ondeggiamento senza esito: un sì-no che finisce
sempre in sì.
Il mondo è orribile. Il re fa del
suo meglio (è qui l’errore). Fa ininterrottamente. Niente è
come appare, niente come vuole, niente cosa sa. Il re aggiunge alle
altre la psicosi del genio che si sente incompreso: imbecilli!,
o peggio, come dice Coriolano, «frammenti!» (Coriolano,
Atto I sc. 1).
Intanto il tarlo di Macbeth
scava come un tumore e a sprazzi si fa sentire - intermittenza panica
- perfino nella coscienza di re regali in tutto e onesti: è infatti
del monarca non poter non sospettare di essere altro che un
usurpatore. Nessun lamento, del resto: è un altro peso che da sé solo
deve portare, esiliandolo in quel niente di anima che può ancora
tenersi, luogo umbratile e disameno, centro di sé sacrificato al
mondo, al quale si offrirà piuttosto la ritualità ostentata e
pachidermica di sicurezze solari, inconfutabili e inesistenti: «non
invano il maestro di ogni saggezza soleva affermare che se il cuore
dei tiranni si potesse mettere a nudo, lo si vedrebbe straziato di
colpi» (Tacito, Annali, VI, 6).
Che è proprio quanto ogni fedele
suddito si rifiuta di sapere. Sapere che, consegnato alla sacralità
del compito, il re vive vedovo di sé stesso e senza io («dato il suo
rango, egli non ha volontà. È soggetto lui stesso alla sua nascita.»
Amleto, Atto I, sc. 3). – Vita grama che il lusso non
consola (il lusso è l’osso da dare ai cani cortigiani, a queste
puttane che mi sopravviveranno). Il re è solo e quindi sempre nudo:
«unisce in sé i destini del tiranno giustamente assassinato e del
martire che subisce, impassibile, la propria passione. Il suo mondo,
quello della corte, è il regno dell’intrigo, del calcolo e della
cospirazione.» (Intr. di G. Schiavone a W: Benjamin, Il dramma
barocco tedesco, Torino 1999).
Proprio un’augusta vitaccia, ma
proprio il dispregiativo dell’ossimoro lo consola, gli fa sentire che
in fondo la sta pagando già abbastanza cara, la gloria: onori e
oneracci: «O dura condizione! nata a un parto con la grandezza del
sovrano, soggetto alle critiche di ogni imbecille che non sente altro
che i propri dolori.» (Enrico V, atto IV, sc. 1).
Cosa dovremmo fare allora? Sarà già
tanto se non farete danno: «I principi mi danno assai se non mi
tolgono niente, e mi fanno bene abbastanza quando non mi fanno niente
di male; è tutto quello che chiedo loro» (M. de Montaigne, Saggi,
vol. III, Milano 1986): così difficile capirlo? E certo qui
Montaigne dice una cosa senza tempo e vera per sempre, che a noi fa
subito venire in mente Brodsky il quale, avendo
conosciuto gl’inconvenienti di uno Stato tirannico, riconosceva come
unico dovere del potere quello di lasciare il cittadino solo.
Si rassegnasse, il monarca, a
un’invisibilità anche non aureolata da nessuna benevolenza del Tao… -
E poi, certo - un poi ch’è anche un prima, un sopra e un sotto - c’è
quello che non può ignorare neppure un Carlo Magno: «Entro il cavo
della corona che cinge le tempie mortali di un re la Morte tien
corte». Sta il re sospeso nel tempo storico fluttuante come un grano
di polvere e recita la parte all’eternità: fa il sole, ma ha giusto il
tempo di dire uno!, come direbbe il principe più cattivo (Amleto,
Atto V, sc. 2): «un breve respiro, una breve scena in cui egli
recita la parte del monarca, si fa temere e uccide con gli sguardi,
dandogli una vana opinione di sé» (Riccardo II, Atto III,
sc. 2). «La storia prima ne farà degli stracci, poi taglierà loro
la testa» (J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano
2006).
E infine, se avesse la sventura di
non morire re? Che ne è di un re che non è più tale? Del resto, basta
un refolo di vento per dubitarne, e su questo i brusii dei re
shakespeariani potrebbero infittirsi come d’una folla: «Chi è là,
dico? come osate turbare le mie meditazioni? chi sono io, eh?», (Enrico
VIII; Atto II, sc. 2); «Il re è in dissesto come un fallito
qualunque» (Riccardo II, Atto II, sc. 1); «Che sicurezza
vi è nelle cose del mondo, che speranza, che sostegno, se colui che
poco fa era un re ora è terra?» (Re Giovanni, Atto V, sc. 7).
Amleto dirà
cacca. Intanto,
nella reggia che la sua rinsecchita persona fa sempre più deserta,
come Macbeth, e dunque «come ogni re, apprende sempre troppo tardi»
(S. Cavell, Il ripudio del sapere. Lo scetticismo nelle
tragedie di Shakespeare, Torino 2004). Si muove senile e
demente tra sale, colonne, regine, riverenze, incubi, discorsi;
azzarda qualche estrema efficacia che sancisca un legame più giusto e
fecondo tra i morti e i vivi; qualche colpo azzecca ancora, e tutto lo
ignora. Del resto,se « il
mondo non è una soluzione» (E. M. Cioran, Lacrime e santi),
come potrebbe esserlo un Re?
*°*
«Diciamo che qui il Re è investito,
per l’anfibologia naturale al sacro, dell’imbecillità che attiene
propriamente al Soggetto»
(J. Lacan, La cosa freudiana, Torino 1972).