"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 

 


 

n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

 

 

21.  Cuore di Tenebra

 

 


RE CLAUDIO - La mia colpa è lontana... (…) Quaggiù, in questo mondo corrotto, la mano d'oro della colpa può allontanare la giustizia, e spesso il frutto stesso del male compra la legge. Ma lassù non è così: lì non vale sotterfugio ; lì l'azione appare nella sua vera natura, e noi stessi siamo forzati a testimonianza davanti al ghigno delle nostre colpe. E allora che mi resta? Tentare ciò che può il pentimento. E che cosa non può? Ma cosa può se un uomo non riesce a pentirsi? Ah maledizione. Cuore nero come la morte. Anima impaniata, più sbatti per salvarti, e più ti invischi. Aiuto, angeli, venite a salvarmi. E voi ginocchia caparbie, piegatevi, e tu cuore d'acciaio fatti tenero come le carni d'un neonato. Ancora tutto può finir bene. ( S'inginocchia)

(Atto III, sc. 4)

 

Alla regalità corrisponda sempre una perplessità! Soprattutto per chi diventa re non per secolare diritto di schiatta, ma per qualche delittuosa concitazione della cronaca, al placarsi d’un vortice di crimini e di casi tutti sempre grossolani, dovrebbe corrispondere l’esercizio di lunghi istanti di straniata meraviglia. Questa confessata fragilità rispetto alla smisuratezza degli eventi, potrebbe essere un bene per lo stesso potere che si vorrà certo conservare: aiuterà l’attenzione e la prudenza.

 

 

 

Il neo-monarca non opponga resistenza: occupato un trono di certo strenuamente voluto, assapori l’istante del timor panico: si tenga all’alba d’uno stupore che, per sua fortuna, solo fino a un certo punto l’ironia esorcizzerà («Ah, sono re?», Riccardo III, Atto IV, sc. 2). Il re nuovo certo si ripromette, e già questa è un’ammissione di colpa, di essere volenteroso e perfino pio – tutti i delitti alle spalle! -, e cerca di emanciparsi dallo spaesamento del parvenu immaginando che una lunga stagione di implacabile buongoverno giustificherà agli occhi del regno la sua fortuna abnorme: programma generico e vasto a sufficienza da tener alta l’adrenalina della prima stagioncella di governo. Ma cosa nella vita è semplice come una promessa al volo adempiuta? Si cerca almeno di conservare una posa tra spigoli, trappole, vicoli ciechi e panie, in stanze piene di bottoni che non comandano nemmeno l’ascensore. Nessuno tra servi ministri e funzionari che capisca fino in fondo un ordine. Io parlo chiaro e loro, stralunati, intendono enigmi. Mi circondano allora di esperti del mio dire, di traduttori, glossatori, di parafrasanti, e più questa pletora di ladri aumenta meno mi si capisce. Fossi almeno una donna, una regina: avrebbero più paura. - Il re dunque dimentica che gli uomini, come i computer, non fanno quello che vuoi, ma quello che gli dici: sono letterali, impiegatizi e ladri: immaginassero almeno quanto, sarebbero già meno ladri. Allora, la cediamo questa misera corona? «Sì, no; no, sì…» (Riccardo II, Atto IV, sc. 1).  - No.

 

E’ tutto qua l’irrinunciabile potere? E questa è un’altra cosa da non dire troppo in giro. Chi capirebbe? Cinico e melanconico, il re si compiace affettando estraneità alla Gran Macchina, e nostalgie impossibili: «O Dio! Che vita felice se fossi un semplice campagnuolo!» (Enrico VI parte III, Atto II, sc. 2). Ma è solo una carezza a se stesso, una mitezza falsa, un ondeggiamento senza esito: un sì-no che finisce sempre in sì.

 

Il mondo è orribile. Il re fa del suo meglio (è qui l’errore). Fa ininterrottamente. Niente è come appare, niente come vuole, niente cosa sa. Il re aggiunge alle altre la psicosi del genio che si sente incompreso: imbecilli!, o peggio, come dice Coriolano, «frammenti!» (Coriolano, Atto I sc. 1).

 

 

Intanto il tarlo di Macbeth scava come un tumore e a sprazzi si fa sentire - intermittenza panica - perfino nella coscienza di re regali in tutto e onesti: è infatti del monarca non poter non sospettare di essere altro che un usurpatore. Nessun lamento, del resto: è un altro peso che da sé solo deve portare, esiliandolo in quel niente di anima che può ancora tenersi, luogo umbratile e disameno, centro di sé sacrificato al mondo, al quale si offrirà piuttosto la ritualità ostentata e pachidermica di sicurezze solari, inconfutabili e inesistenti: «non invano il maestro di ogni saggezza soleva affermare che se il cuore dei tiranni si potesse mettere a nudo, lo si vedrebbe straziato di colpi» (Tacito, Annali, VI, 6).

 

Che è proprio quanto ogni fedele suddito si rifiuta di sapere. Sapere che, consegnato alla sacralità del compito, il re vive vedovo di sé stesso e senza io («dato il suo rango, egli non ha volontà. È soggetto lui stesso alla sua nascita.» Amleto, Atto I, sc. 3). – Vita grama che il lusso non consola (il lusso è l’osso da dare ai cani cortigiani, a queste puttane che mi sopravviveranno). Il re è solo e quindi sempre nudo: «unisce in sé i destini del tiranno giustamente assassinato e del martire che subisce, impassibile, la propria passione. Il suo mondo, quello della corte, è il regno dell’intrigo, del calcolo e della cospirazione.» (Intr. di G. Schiavone a W: Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino 1999).

 

Proprio un’augusta vitaccia, ma proprio il dispregiativo dell’ossimoro lo consola, gli fa sentire che in fondo la sta pagando già abbastanza cara, la gloria: onori e oneracci: «O dura condizione! nata a un parto con la grandezza del sovrano, soggetto alle critiche di ogni imbecille che non sente altro che i propri dolori.» (Enrico V, atto IV, sc. 1).

 

Cosa dovremmo fare allora? Sarà già tanto se non farete danno: «I principi mi danno assai se non mi tolgono niente, e mi fanno bene abbastanza quando non mi fanno niente di male; è tutto quello che chiedo loro» (M. de Montaigne, Saggi, vol. III, Milano 1986): così difficile capirlo? E certo qui Montaigne dice una cosa senza tempo e vera per sempre, che a noi fa subito venire in mente Brodsky il quale, avendo conosciuto gl’inconvenienti di uno Stato tirannico, riconosceva come unico dovere del potere quello di lasciare il cittadino solo.

 

 

 

Si rassegnasse, il monarca, a un’invisibilità anche non aureolata da nessuna benevolenza del Tao… - E poi, certo - un poi ch’è anche un prima, un sopra e un sotto - c’è quello che non può ignorare neppure un Carlo Magno: «Entro il cavo della corona che cinge le tempie mortali di un re la Morte tien corte». Sta il re sospeso nel tempo storico fluttuante come un grano di polvere e recita la parte all’eternità: fa il sole, ma ha giusto il tempo di dire uno!, come direbbe il principe più cattivo (Amleto, Atto V, sc. 2): «un breve respiro, una breve scena in cui egli recita la parte del monarca, si fa temere e uccide con gli sguardi, dandogli una vana opinione di sé» (Riccardo II, Atto III, sc. 2). «La storia prima ne farà degli stracci, poi taglierà loro la testa» (J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano 2006).

 

E infine, se avesse la sventura di non morire re? Che ne è di un re che non è più tale? Del resto, basta un refolo di vento per dubitarne, e su questo i brusii dei re shakespeariani potrebbero infittirsi come d’una folla: «Chi è là, dico? come osate turbare le mie meditazioni? chi sono io, eh?», (Enrico VIII; Atto II, sc. 2); «Il re è in dissesto come un fallito qualunque» (Riccardo II, Atto II, sc. 1); «Che sicurezza vi è nelle cose del mondo, che speranza, che sostegno, se colui che poco fa era un re ora è terra?» (Re Giovanni, Atto V, sc. 7). Amleto dirà cacca. Intanto, nella reggia che la sua rinsecchita persona fa sempre più deserta, come Macbeth, e dunque «come ogni re, apprende sempre troppo tardi» (S. Cavell, Il ripudio del sapere. Lo scetticismo nelle tragedie di Shakespeare, Torino 2004). Si muove senile e demente tra sale, colonne, regine, riverenze, incubi, discorsi; azzarda qualche estrema efficacia che sancisca un legame più giusto e fecondo tra i morti e i vivi; qualche colpo azzecca ancora, e tutto lo ignora. Del resto,se « il mondo non è una soluzione» (E. M. Cioran, Lacrime e santi), come potrebbe esserlo un Re?

 

*°*

 

«Diciamo che qui il Re è investito, per l’anfibologia naturale al sacro, dell’imbecillità che attiene propriamente al Soggetto» (J. Lacan, La cosa freudiana, Torino 1972).


 torna a  

 

     torna su