«…se non fosse il timore di qualcosa dopo la morte, la
terra inesplorata…»
(Atto III, sc 3)
«Ora quella morte che alcuni chiamano la più orribile delle
cose orribili, chi non sa che altri la chiamano l’unico rifugio dai
tormenti di questa vita, e il bene sovrano della natura, il solo
sostegno della nostra libertà? E comune e proprio riparo a tutti i
mali? E come alcuni l’aspettano tremanti e spauriti, altri la
sopportano più facilmente che la vita.»
(M. de Montaigne,
Saggi, vol. I, Milano1986)
Nell’«essere o non essere»
l’impasse è determinata da un’angoscia senza uscita: passare dalle
padelle arroventate di un Io-Superio dissonanti e tirannici alla brace
di un inconscio (un incubo lungo quanto la morte!) signoreggiato da
dèmoni e diavoli addirittura peggiori.
Amleto teme che il non-essere non
esista! Non si suicida perché sospetta (il padre è LA prova che ne ha
ben donde) un mondo dopo la morte PEGGIORE di quello effimero e
grottesco della vita carnale – quindi esita e si trattiene nel
guscio di noce, ahimè per
lui in ogni caso sfasciato, dell’apparenza, e di un se stesso
enigmatico e irrisolto.
Questo sospetto è radicale: è il
timore che Dio sia, e che sia incommensurabilmente più antiumano del
Nulla. Lo Spettro stesso del padre, incapace di conciliazione e
stravolto da un Purgatorio senza amore per il Paradiso, istilla l’idea
che il Creatore del tutto abbia amato architettare soprattutto
ultramondi sconcissimi, piranesiani labirinti di tortura perfino, come
per suo padre, per i giusti (mentre Claudio con una «preghieruzza»
potrebbe «volare in Cielo»).
Questa è la questione:
che forse esiste un Dio, che è la quiete dell’annientamento a non
esistere. Che non è vero che «mors est non esse» (Seneca,
Lettera a Lucilio, 54.4); che, per citare una delle «fonti»
più probabili di Shakespeare, Montaigne («Se è un annientamento
del nostro essere, è anche un miglioramento entrare in una lunga e
tranquilla notte», Saggi, vol. III, Milano 1986) con i
suoi Epicuro, Democrito, Lucrezio, ha torto.
«In questo bellissimo giorno, che è
anche l'ultimo della mia vita…» (Democrito, Lettera a Idomeneo):
chi potrà più cominciare così un testamento? Si contemplasse solo una
caduta degli dèi, resterebbe spazio per se stessi, ma la CADUTA DEL
NIENTE, non avere per sé neppure più il niente, a cosa ci lascia? – Un
molto luciferino Pascal potrebbe dirci che non ci resta che
scommettere su una qualche, buona o pessima?, forma di essere.
L’orrore di una confisca eterna di sé c’era già nelle anime infernali
di Dante, che bestemmiavano il giorno in cui Dio li aveva
voluti al mondo; ma in Dante c’è solo stridor di denti. «Nulla
sappiamo di questo andarsene / che non accade a noi» (R. M. Rilke,
Esperienza della morte): non sapendone nulla può essere
qualunque oscena cosa.
Così Amleto non si uccide. C’è del
metodo nella sua inazione. C’è soprattutto molto metodo in Shakespeare
per arrivare a scrivere queste cose. Confrontando il to be or not
to be dell’Amleto del 1603 con quello che
diamo per definitivo (edizioni del 1604-5 e 1623),
Serpieri ripercorre un itinerario essenziale: il monologo «nel
primo Amleto rivela una struttura concettuale e immaginativa
diversa dal passo classico; (…) perché qui Amleto, meditando il
suicidio, lo sospende o lo rifiuta non per il terrore di
qualcosa dopo la morte («the dread of something afther death») come
nelle edizioni classiche, ma per la speranza di una salvezza
eterna dopo la morte («a hope of something after death») quando sarà
portato davanti a un Giudice eterno («borne before an everlasting
Judge»), un Giudice che scompare nell’Amleto classico, secondo
una visione ben più agnostica e disperata» (A. SERPIERI, Il
mistero del primo Amleto in Tradurre/Interpretare “Amleto”,
Bologna 2002). Disperata per la insostenibile possibilità che un
Dio cattivo, un leopardiano Arimane («malvagità, sommo potere e
somma intelligenza»), esista.
Recentemente, un cardinale tra i
potentissimi ha detto che il Paradiso sarà bello come uno stadio di
calcio osannante, al che non solo Amleto potrebbe declinare
l’invito.
E' reale tutto questo? E' forse
tempo di passeggiare?
Meglio eternamente dormire,
dormire, dormire,
senza sogni.
(B. PASTERNAK, La fine,
in Mia sorella la vita, Milano 1996)