Tour
de force
non da poco fu scrivere (a sentir Da Ponte, appena negli intervalli di
tempo che si concedeva nel godimento d’una servetta di sedici anni)
tre libretti in un sol colpo e in pochissimo tempo. Si tratta dell’Axur
per Salieri, de L’arbore di Diana per lo spagnolo Martin y Soler, e del Don
Giovanni per Mozart..
Se
c’è già il giusto brio, la fretta è un’ottima Musa, e infatti
Da Ponte considerò proprio uno di quei tre libretti il suo migliore
in assoluto: è l’arcadico L’arbore
di Diana, “voluttuoso senza essere lascivo” (Memorie).
Sotto
spoglie mitologiche, come allor s’usava, Da Ponte lodava qui la
soppressione che Giuseppe II aveva voluto dei monasteri di
clausura.
Ecco
la storia: la casta e altera dèa della caccia Diana regnava con la
sua corte di ninfe in un giardino meraviglioso. Nel giardino c’era
un melo che faceva frutti d’oro. Se però una ninfa che aveva
peccato contro la castità, foss’anche solo col pensiero, vi fosse
passata sotto, le mele si sarebbero fatte nere e sarebbero cadute a
terra di colpo. La cosa seccava naturalmente le ninfe, molto più
lascivette della dèa; e seccava moltissimo proprio Amore, obbligato a
evitare il giardino.
Amore
affidò allora i suoi dardi a un pastorello più bello d’un Adone
che, libero di entrare nel giardino, fece innamorare proprio Diana.
Così, quando la dèa passò sotto l’albero delle mele d’oro,
queste si annerirono e caddero tutte al suolo, scoprendola. La dèa
– siamo al finale – abbandonò quindi ogni ingiusta severità,
spalancando ad Amore le porte del suo magnifico e non più sterile
giardino.
Così
canta una delle ninfe:
Son
tenera e fresca,
ho
spirito e brio,
provar
voglio anch’io
di
fare all’amor.
Applausi
scroscianti.