Nessuno,
naturalmente; nessuno almeno di definibile.
L’”Io”
è un elettrone pulsante: come provi a fissarlo, scappa da
un’altra parte. Nessun libro quindi “finibile” - lo
disse chiaro chiaro una volta per tutti Valéry - perché
l’autore non è mai finito… come l’autore continua a
vivere, mutandosi, contraddicendosi, negandosi, dimenticandosi,
così i suoi libri restano sempre riscrivibili, emendabili,
ripensabili: all’infinito. Perfino la “Gioconda”
non
è che una delle mille varianti possibili di quel volto: se ora
è lì, monumento dell’Occidente migliore, è perché Leonardo
è morto e noi abbiamo rifiutato, sigillandola al Louvre sotto
un vetro antiproiettile a temperatura e umidità costanti, di
lasciarla in balia del tempo.
Stendhal,
pensò sempre meno alla scrittura come a qualcosa che potesse
“finire” nel libro: la stampa per lui non faceva d’un
manoscritto la sua tomba monumentale e ormai intoccabile.
Stendhal aveva l’abitudine di farsi cucire pagine bianche in
mezzo alle pagine stampate delle sue opere (si dice
“interfogliare”) per potersi sbizzarrire in glosse,
varianti, correzioni… lo faceva anche con i libri degli altri,
sempre letti come propri, e per questo facilmente cooptati,
“annessi”, nei suoi (gli altri dicevano “plagiati”).
Faceva
così dei suoi libri qualcosa di sinceramente affine a sé, alla
propria pulsante caoticità. A forza di riscritture, il libro
stampato riprecipitava nel manoscritto: l’ordine delle frasi e
degli argomenti si ramificava in nuovi labirinti, aprendo nuovi
cantieri caotici in cui far spazio a un caleidoscopio di
pensieri nuovi, di voci babeliche che non hanno più - che
liberazione! - alcuna pretesa di “compiersi”, di chiudere
il cerchio, di mettersi in ghingheri, di assomigliare alla
freccia che centra il bersaglio: se i libri di Stendhal
assomigliano a una freccia, sarà quella famosa di Zenone, che,
sempre in volo, non arriva mai da nessuna parte: proprio come la
vita?