Tenere
un diario, scrivere delle memorie: il “futile” Stendhal era
troppo profondo per accontentarsi di scrivere opere che
costruissero il monumento di se stesso. Nel suo caso, così
avvincente, la scrittura di sé trasforma le pagine bianche
nella selva infinita in cui si perde e si ritrova l’Angelica
di Ariosto: si perde in se stesso e nei suoi ricordi: nessun
“tempo ritrovato” a consolarlo, alla fine, dell’aver
errato nella vita con una secchia sfondata per memoria. Il
ricordare è un’avventura incerta e, come nel caso di “De
l’Amour” pericolosa: più che a Ulisse che ritrova la
sua Itaca, assomiglia alle esplorazioni di Colombo, che cercando
una cosa ne trovò un’altra:
“Mentre
scrivo la mia vita nel 1835, faccio un mucchio di scoperte;
scoperte di due specie: prima di tutto sono ampi stralci di
affreschi su una parete, che, da lungo tempo dimenticati,
affiorano d’un tratto, e accanto a questi pezzi ben
conservati, ci sono vasti spazi come ho già detto parecchie
volte dove non si vede che il mattone. L’arricciatura su cui
c’era l’affresco è caduta, e questo è perduto per sempre.
accanto alle parti conservate manca la data e a me tocca oggi nel
1835 andarne a caccia. Per fortuna poco importa un anacronismo,
una confusione di uno o due anni.” (Ricordi
di egotismo)
Siamo
a un passo da una conclusione più sconcertante: “il ricordo
è soltanto un romanzo inventato per la circostanza”. E solo
un altro passo dal suo capovolgimento in questa convinzione di Gérard
de Nerval, che, come nel gioco dell’oca, rimanda tutti al
punto di partenza: “inventare è in fondo ricordarsi”.