Ci
rimase come Ovidio tra gli Sciti.
Se
Trieste era baltica, Civitavecchia era Africa: luce accecante di un
sole eterno, un porto da poco su una costa brulla e banale. La città
– 7.500 ab. più 1.000 forzati – era dominata da una colonia
penale. Davvero il contrario di Trieste: nessuna “società” in
cui farsi accettare e l’aria ferma e morbosa: vi allignava la
malaria e il colera: e dire che aveva parlato male di Parigi!
Ma
Stendhal è sempre Stendhal: per cui, questo zero di vita sociale è
sempre meglio della feroce baraonda del “progresso”:
sempre meglio una plebe di pescatori e manovali apatica e
barbara che l’inferno londinese che incatena un operaio 16 ore al
giorno a una macchina: qui non si sapeva ancora niente della
“civiltà”, quella cosa inarrestabile che stava riducendo la
vita umana a lavoro; si aveva tempo per fare niente e cioè
l’amore: ogni sera sente la sua vicina, madre già di sette figli,
gridare di piacere nel letto…
A
parte queste considerazioni filosofiche, la verità è che moriva di
noia e che si sentiva caduto in una trappola che avrebbe potuto
ucciderlo.
Non
gli restò che divertirsi da sé e con sé, scrivendo: “Ricordi
d’egotismo”, “Vita di Henry Brulard”, “Leucen
Leuwen”.
Così,
proprio a Civitavecchia, Stendhal trovò se stesso e sprofondò
nell’impubblicabile: non più operette da spacciare con pseudonimi
quasi sempre diversi, ma libri per cercarsi, per capirsi, per
parlare di sé a se stesso, scommettendo sulla possibilità di una
sincerità totale, nell’ipertrofia senza ritorno della brutta
copia…
Era
ritornato alla sua prima idea: si scrive per piacere e per
sé soli.
Quanto
alla vita sociale, non c’era che da scappare a Roma