Fu
nel 1811. La città, circondata da un “territorio
collinoso, insignificante”, non gli piace. Entra dalla
porta del Popolo, che a suo vedere “non
ha nulla di notevole”.
Percorre la città quasi distrattamente, solo talvolta commosso
alla vista delle antiche rovine, come il Colosseo o la cupola del
Pantheon, che per lui furono costruiti apposta per suscitare
emozioni e meraviglia.
Nel
1817 annota in "Roma, Napoli, Firenze":
"I pedanti, che trovavano nella Roma
moderna l’occasione di sfoggiare il loro latino, ci hanno persuaso
che essa è bella: ecco il segreto della reputazione della Città
Eterna... Regna per le strade di Roma un tanfo di cavoli marci.
Attraverso le belle finestre dei palazzi del Corso si scorge la
povertà degli interni".
Roma
è un insieme di splendide rovine e brutte costruzioni moderne:
meglio se fosse stata abbandonata al deserto. I preti sono causa del
suo declino, come le
superstizioni cristiane: qui lo spirito laico e anticlericale di
Stendhal ha materia per sfogarsi! –
La colpa maggiore di Roma è di non assomigliare a Milano, di
essere anzi il suo perfetto contrario, cominciando dal paesaggio
circostante, privo di monti e di laghi superbi finendo con lo
spirito del popolo, chiuso a ogni benefica novità