Milano
aveva 120.000 abitanti ed era piena di canali. Stendhal la amò al
punto da rimpiangere l’odore dello sterco per le strade.
Indimenticabile il racconto dell’arrivo a Milano dei francesi
all’inizio della “Certosa di Parma”. A differenza del
primo incontro con Parigi, dunque, non lo deluse affatto: Milano fu
la felicità. Lì trovò l’amore, una “società” colta, la
Scala… E la Lombardia dei laghi era per lui il paradiso in terra.
Anche
nel ricordo, l’entusiasmo gli sconnetteva la logica, sbiancava le
immagini: “Come fare un racconto un po’ ragionevole di tante
follie? Da dove cominciare? Come rendere un po’ comprensibile
tutto questo? Ecco che già dimentico l’ortografia, come mi capita
nei grandi slanci di passione, e si tratta tuttavia di cose avvenute
trentasei anni fa… Che partito prendere? Come dipingere la felicità
folle?” (Ricordi di Egotismo).
Ma
tutto ha un fine. Non solo l’amore impossibile per Matilde lo
spinse a tornare a Parigi.
Un
altro motivo dell’abbandono di Milano fu la “politica”
complottarda e catastrofica dei Carbonari: in cui Matilde era
coinvolta. Per Stendhal, quegli italiani che si mettevano a
giochicchiare infantilmente ai rivoluzionari non sapevano quel che
facevano… per lui, il fatto che l’Italia avesse la pretesa di
risvegliarsi da se stessa, di uscire dal suo Eden irresponsabile, di
farsi “Nazione” tra le nazioni, era la demenza moderna che
sfondava uno degli ultimi cancelli illesi d’Europa: come potersi
illudere che la politica possa dare la felicità? La politica è un
gioco fatuo, bisogna essere dei vanitosi vuoti per goderne: cose che
lui, il giacobino, sapeva per prova.
Le
trame dei carbonari non potevano che fallire subito e tragicamente:
i loro inganni settari ebbero per unico frutto un po’ di vite
spezzate per niente.