“Čechov
era un uomo feroce”
(I.
SEBALDI, “Introduzione” a
A.
ČECHOV, Racconti,
Mondadori)
Sulla
ferocia, forse vale la pena azzardare due concetti laconici in russo e
appena parafrasabili per noi. Il primo è “ne
to”, ovvero (rubando sempre da Sebaldi): “ciò che non è quello che ci vuole e che si vorrebbe”. L’altro è “ploslost”:
“scadente, posticcio, banale, scipito,
pretenzioso, di cattivo gusto” (V.
NABOKOV, Gogol).
Dopo
Gogol e Baudelaire,
sarà tra “ne
to” e “ploslost” il nuovo regno della
letteratura? - E questo sarà mica perché, ascesa la borghesia fino
alla cima del mondo, la “Bellezza”, cacciata nel suo bottino di
guerra, fu presto messa a far da tappezzeria alle case dei giudici e dei
notai, dei medici e degli avvocati, come nella nuova reggia
pietroburghese di Ivan
Ilic?
Come
un’Emily Dickinson di bianco vestita, l’arte allora si ritira:
lascia l’osso della “Bellezza” a chi se l’è ormai pappato, e se
ne va dove sarà più difficile stanarla: nel repellente, nella
provocazione, nel nulla...
In
una lettera di Čechov all’amico Suvorin
(7
gennaio del 1889),
si capisce che quel figlio d’un droghiere dispotico si fece medico
perché affascinato dai significati anche simbolici delle guarigioni:
quei singolari eventi, cioè, in cui il passato viene perfino del tutto
emendato. - Allo stesso tempo, Čechov
divenne scrittore
perché abitato dal pensiero opposto: che “il mondo così come
appariva a lui attraverso le lenti di quella sua storia non narrabile
fosse il mondo così com’è davvero, così pervaso di desolazione e di
vuoto esistenziali, così
ne
to
–
per tutti, anche per chi non era mai stato servo – e che il resto
fosse soltanto lo sforzo di non vedere il mondo così com’è” (I.
SEBALDI, op. cit.).
La
ribellione al ne
to è vana come una crisi isterica in Zio
Vanja: livore che ricade greve sulle spalle
dell’impotente. Tutt’attorno intanto trionfa, ignaro, indifferente,
irridente, inutile, la poslost:
“Poslost
è in un individuo l’incapacità più o meno volontaria di percepire
quella mediocrità quando l’anima e la vita di costui hanno già
capitolato dinanzi a essa: quando egli è già divenuto posliàk,
e già gode di esserlo, e sugge e trasuda mediocrità, in un’apparente
e pestifera ingenuità, o innocenza.” (I.
SEBALDI, op. cit.)
Dostoevskij
messianico giura che “la bellezza salverà il mondo”, e Čechov
nota che la poslost lo sta distruggendo: “In
tutti la distruggerà? In tanti, in quasi tutti; e gli altri dovranno
cercane scampo nella solitudine, nello sgomento” (I.
SEBALDI, op. cit.).
Resta
la cattiveria - la vendetta - della descrizione pura, la perfidia del
“naturalismo” che specchia il mondo così com’è. “Mentre,
se uno filosofeggia, vuol dire che non capisce”
(A.
ČECHOV, Una
storia noiosa, Mondadori).
-
Niente pensieri: l’attenzione
disarmata è la forma più necessaria di odio, la più riscattante:
“ogni racconto diventa necessariamente una sfida sperticata, narrare
l’uguale, l’insignificante”, con “un’inesauribile gusto da
acrobata” (I.
SEBALDI, op. cit.).
Una
volta Čechov, parlando con Vladimir
Galaktionovic Korolenko, scrittore buono (e cioè
ideologicamente molto pervaso), disse che ormai per lui qualunque
cosa sarebbe potuta diventare un racconto: aveva sottomano un
portacenere, lo prese e promise un racconto, che in pochissimo tempo fu
fatto.
Per
cose così, necessaria una lingua “precisa come un arrivederci” (V. MAJAKOVSLIJ, I
due Čechov).