Parrebbe
ora – parrebbe – arrivato il tempo dei libri digitali, di fare le
scarpe agli analogici. Vero è che, come osservava Enzo Siciliano, il
libro di carta ha molte delle qualità della donna, che quello
elettronico nemmeno si sogna: puoi incignarlo ancora intonso,
toccarlo, odorarlo, portarlo a letto con te, addormentarti col suo
dolce peso sul petto: solo un pervertito potrebbe fare le stesse cose
con un piccì, per portatile che sia. Ma non di meno è vero che al
libro di carta, come alla donna, sono dovute attenzioni, delicatezze,
obblighi (per esempio mai prestarlo, tanto più agli amici) che verso
quello elettronico non ti passano manco p’a capa, perché a questo
gli puoi fare quello che vuoi: formattarlo come più ti piace,
sostituirlo con una versione più aggiornata, cambiargli i connotati
– tutte cose impossibili col cartaceo, e, parbleu,
disdicevoli con la propria donna. Un insigne traduttore, un luminare
della letteratura inglese, mi confidava appunto di non essere più
soddisfatto delle versioni (da Shakespeare) che aveva pubblicato
vent’anni prima, per cui aveva chiesto all’editore di ristamparne
un’edizione aggiornata; macché, l’editore non ha mica accettato.
A un luminare. Il paragone con la donna non sembri perciò peregrino:
il libro di carta è per sempre, finché morte non vi separi; il
virtuale no. E’ diventato, forse, (ma certo che sì), con gli anni,
col tempo devastatore, il tuo fiorellino amoroso una bolsa slandrona?
Una minace, baffuta, popeyesca matrona? Spippola un po’ sulla
tastiera, seleziona qua e là, cerca e sostituisci, taglia e incolla,
ed ecco fatto il miracolo: il tuo fiorellino amoroso, di nuovo, più
bello e più dolce che pria.
|
|
Pensieri
del genere mi sono venuti in mente non per caso, o per freddo
ragionamento (il che sarebbe pure plausibile), ma per esperienza
diretta: ci ho sbattuto cioè personalmente la testa più volte, da
quando ho cominciato a tradurre. Fino allora avevo accettato, preso
per buono, quello che stava scritto nel libro comprato in libreria. Ohé,
mica Pippo Poppi Editore: Einaudi, Adelphi, Studio Editoriale, Guanda,
e compagnia bella. Quando non ci capivo granché, chiudevo il libro e
lo riponevo fra gli altri, un po’ avvilito di risultare, mannaggia,
proprio io – uno per cui tanti eccellenti istitutori si sgolarono
per anni dalle cattedre d’uno fra gli ottimi licei d’Italia –
proprio io persona incolta, inadeguata, irrimediabilmente negata alla
bellezza, agli straordinari concetti che evidentemente (se l’avevano
pubblicato) l’autore aveva espressi in quel libro, e alla
comprensione dei quali altrettanto evidentemente soltanto io (se altri
lo citavano entusiasti, recensori lo recensivano, Sgarbi ne leggeva
brani in tv) non ero capace d’arrivare. Poi però, cocciuto, quasi
indispettito, (e soprattutto, rimasto senza lavoro, ricchissimo di
tempo da perdere), ho cacciato il naso direttamente nei testi
originali – con la pazienza e la fatica che si possono accreditare a
un autodidatta di quelle lingue – ed ecco che un’altra verità
cominciava a tralucere, un’altra ipotesi, almeno, a prendere corpo:
che forse non io, ma il traduttore fosse la persona incolta,
inadeguata alla bellezza del testo – e il suo editore con lui.
|
|
Ma
era possibile questo? Possibile che case editrici famose per lignaggio
e reputazione gabellassero pacciame per oro,
parole in libertà per fulgidi pensieri? Possibile che per
ragioni commerciali (avendo in magazzino ancora migliaia d’esemplari
di queste loro sciagurate edizioni, o spendendo un nulla per
ristamparne ancora) seguitassero, e tuttora seguitino (perciò
attenzione gente), a promuovere quelle andantissime traduzioni e a
rifiutarne di nuove, non dico esaustive dei testi originali (cosa che,
sia pur di rado, avviene: il Brantome di Savinio sia d’esempio, e
monito, a tutti i traduttori) ma almeno condotte con devozione:
dizionario, grammatica e sintassi alla mano, e tirandosi dietro, il
traduttore, un filo logico-interpretativo plausibile, che non obblighi
il lettore a un frustrante abbandono?
Perché
cos’altro può fare un disgraziato di fronte a un periodo come
questo, tratto dal discorso che Calibano pronuncia nel terzo capitolo
del Mare e lo Specchio di Auden, nell’unica versione disponibile in
italiano?
“La
nostra Musa innata, sa e ne sia lodato il cielo, non è esclusiva.
(...) le sue famose, memorabili e ricercatissime serate presentano
all’occhio speculativo una splendente e mai offuscata prova del
suo potere sbalorditivo e senza precedenti di creare combinazioni
e contrasti in modo che ogni sfumatura della tavolozza morale e
sociale contribuisca alla generale ricchezza, della destrezza,
inavvicinata e intentata dalla zia greca e dalla sorella gaelica,
con cui essa può pattinare in piena inclinazione verso la
spietata incoerenza e infine, all’ultimo secondo spaccato,
sull’orlo fremente del boemo non standardizzato abisso
effettuare la sua sbalorditiva trionfante curva.” (Il Mare e
lo Specchio, Milano 1988, pagg. 57-59)
Che
cos’altro puoi fare, dico a te, lettore, se non riflettere su ciò
che hai appena letto, cercando anzitutto di figurarti come possa
essere fatto un abisso boemo (standardizzato o no vedremo dopo, come
pure l’orlo fremente: orli frementi standardizzati, del resto, li fa
anche mia moglie con la macchina da cucire giapponese, selezionando il
punto a zigo zago – sicché un’idea ce l’ho, ma d’abissi
boemi, giuro, non ne avevo mai sentito parlare prima; sapevo sì di
certe grotte carsiche, da quelle parti. Ma chissà, forse c’è là
davvero un famoso abisso, non standardizzato, e a tutti noto fuorché
a me, ignorante e bestia che non sono altro). E cosa ti resta ancora,
dopo che hai riflettuto a vuoto qualche minuto, se non chiudere il
libro e riporlo una volta per tutte sullo scaffale? E dire che in
calce al volume è riportata una lettera di Auden alla traduttrice, in
cui il poeta domanda se ‘c’è uno scrittore italiano che abbia
uno stile altamente ricercato su cui basare la traduzione’ (come
aveva fatto lui ispirandosi allo stile di Henry James per Calibano).
La traduttrice risponde che ha intenzione d’ispirarsi a Gadda... Sì,
der pasticciaccio.
|
|
|
E questo è solo un passo, tradotto
oltretutto fedelmente, se esista una fedeltà oscura; ma ce ne sono
altri in cui il testo, drammatico eppure chiarissimo, è stravolto,
con esiti addirittura comici, come quando il timido va a vincere alla
fiera, win the fair, anziché conquistare la bella (p.65), o la
Fortuna gioca a scacchi nei più malfamati bar di Caracas, o urla
staffilata su letti di ferro (non è detto da chi: certo da qualcuno
che non ha fatto bingo) (pag.71). Tutto ciò sia detto senza
cattiveria: non si fa una risata quando uno scivola su una buccia di
banana? Succederà certamente anche a noi, e di noi rideranno gli
altri. Ma possibile che, finora, quattro volte mi sono accinto a
verifiche del genere e quattro volte è sortito lo stesso risultato?
Cioè che la versione pubblicata fa acqua da tutte le parti? O non sarà
piuttosto che sono io a vedere la pagliuzza eccetera? A volte questo
dubbio rode, fino a quasi diventare certezza. Ma poi mi guardo intorno
e vedo che non sono solo. Provi chiunque a leggere la Filocalia nella
lussuosa edizione Gribaudi, Torino 1982, e quella di fra’ Giovanni
Vannucci, affidata alle smilze brochures della LEF, Firenze 1978, e mi
sappia dire se non c’è la stessa differenza che fra notte e giorno,
fra tormentoso cicaleccio e cuore che parla al cuore.
|
|
Lo stesso accade coi grandi romanzi
dell’800: a seconda del traduttore li bevi d’un fiato o
t’addormenti dopo tre pagine, quasi li avesse scritti Eco, o Alberoni.
Lo stesso sarà accaduto a quei lettori che, su questo stesso sito,
hanno giudicato fredda e oscura la poesia di Brodskij.
Anch’io a una prima lettura ebbi
la medesima impressione, per cui il caro Josif
ha ronfato tutti questi anni fra due guanciali: Bogdanov e
Bulgakov. Ma rileggiamolo ora, dopo che non io in quanto me, ma quel
palloso di Fiornando Gabbrielli ha messo mano al testo originale, e
n’ha tirato fuori un senso, un andamento d’idee e di sensazioni,
un po’ di quel fuoco insomma che illumina e riscalda tanta prosa
dello scrittore russo. Non tenti però oggi, checché! né il
Fiornando Gabbrielli né nessun altro traduttore, fosse pure un
novello Montale, un Leopardi mascherato, un Dante in incognito, di
riproporre a Adelphi la poesia di Brodskij: l’abbiamo già in
catalogo, vende bene così, non vediamo perché dovremmo cambiarla.
Ecco dunque perché sarebbe
l’ora – sarebbe – che il libro cartaceo passi la mano
all’elettronico, e vada in pensione, come hanno fatto via via le
pergamene i rotoli i papiri le tavole.
Grandi interessi vi
s’oppongono, si sa, come sempre a ogni mutamento – autori, editori
e loro società; poligrafici, librerie, edicole; e, last but not
least, il mio amico Fabrizio, titolare d’una bancarella di libri
usati – ma son tutti
interessi oramai contrari a quello del lettore, che ha il diritto,
penso, di scegliersi, d’un’opera, la versione che più gli piace,
come d’un’automobile – e non, come ora, per ragioni che nulla
hanno a vedere con la cultura, o mangiar questa minestra o saltar
quella finestra.
|
Un
bene non è un bene se a migliaia
Non
possono goderne la bontà,
Ma
va sprecato per avidità.
(John
Donne, Amor recluso)
|
|