"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 8 luglio 2004

 

Elogio degli uccelli di Giacomo Leopardi


 

 

 


16.  Riso, sorriso, sghignazzo 

 

 

“...nondimeno ridere” 

(Elogio degli uccelli)

 

 

Si annuncia nell’Elogio, quale prossima opera del Filosofo Solitario, una Storia del riso.

 

Benché in apparenza non pervenuta, dice Antonio Prete a Salvatore Natoli che di fatto Leopardi la scrisse “nelle forme più diverse: non solo la parodia ma anche il riso della filosofia, il riso di disprezzo e di scherno della filosofia, il riso di disprezzo e di scherno che ha il mondo nei confronti della virtù, e infine il riso come liberazione dall’affanno, dall’affanno del pensiero”.

Perché poi sarebbe un tema così importante? Perché “la parodia, il riso, l’interrogazione stessa sono tutte modalità di una sospensione, di una sospensione del tragico si potrebbe dire. La sospensione come condizione di una ricerca”  (A. PRETE e S. NATOLI, Dialogo su Leopardi).

Il riso degli uccelli è però il più puro, essendo quello dell’animale che “si sente star bene e piacevolmente”, e basta: “Onde si potrebbe dire in qualche modo, che gli uccelli partecipano del privilegio che ha l’uomo di ridere: il quale non hanno gli altri animali; e perciò pensarono alcuni che siccome l’uomo è definito per animale intellettivo o razionale, potesse non meno sufficientemente essere definito per animale risibile” (Elogio).

 

Il dramma nell’idillio come al solito è l’uomo, ridotto però a tragedia di due parole. - Ecco: pareva ad Amelio che gli uccelli cantando “quasi applaudissero alla vita universale, e incitassero gli altri viventi ad allegrezza, facendo continue testimonianze, ancorché false, della felicità delle cose.”

 

Ancorché false: - Ecco lo scarto: l’ancorché false incrina la frase, accennando a ciò che sarebbe bene non sapere, anche se appena “buttando lì”, alla leggera, e non facendo peso sul concetto mettendosi a dimostrarlo: il lettore viene lasciato a mezz’aria, alla sua straniata meraviglia, e al suo sospetto. Il male gli viene inoculato come una mancia ovvia.

Nell’ancorché false c’è il dolore ironico del pensare e del sapere ciò che sarebbe ottimo ignorare. Da una lettera del 1828: “Scrivere poi senza affaticarsi punto e senza pensare, va benissimo, e lo lodo molto, ma per me non fa, e non ci riesco” (Lett. a A. Papadopoli, 25 febbr. 1828)

 

Lancorché false tradisce apposta il pensiero che non si riesce più a non avere - e lo fa in fondo con gusto allo stesso tempo sadico: accendendone il lampo - un solo flash! - sul lettore tenuto fino a quel punto paradisiacamente spensierato.

 

Si legga, per confronto necessario e stridente, cosa dice Eleandro del suo riso troppo umano: “tengo pure per fermo che il ridere dei nostri mali sia l’unico profitto che se ne possa cavare, e l’unico rimedio che vi si trovi. Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca un sorriso.”  (Dialogo di Timandro e di Eleandro).

 

Sulla stessa linea, il riso Tristano: “Ma se mi dolessi piangendo (...) darei noia non piccola agli altri, e a me stesso, senza alcun frutto. Ridendo dei nostri mali, trovo qualche conforto; e procuro di recarne altrui nello stesso modo” (Dialogo di Tristano e di un amico).

 

Altra speranza complessa: ché sappiamo che il riso dell’ultimo Leopardi risultò cacofonico peggio del chicchirichì del Gallo Silvestre (Palinodia, Nuovi credenti, Paralipomeni...).

Aggiungiamo allora lo sghignazzo alla Carmelo Bene sui poetini con la faccia da Pessoa: “I sentimenti dei poeti, se non mi muovono lo stomaco, mi fanno ridere... Questa mutazione in me, come ti ho detto... l’hanno fatta i filosofi; gente che in questi giorni è cominciata a montare in potenza, e monta ogni giorno di più” (Copernico).


 

 

 

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