…chi
dietro a li uccellin sua vita perde…
(Purgatorio,
XXIII, 3)
“Di
qua, di là, di su, di giù li mena”
(Inferno,
canto V, 43)
Come
si sa, l’Inferno vero – dopo Limbo e Ignavi – inizia con i
lussuriosi: i soli dannati volanti. almeno nei casi più alti, si
tratta di vittime nobili dell’equivoco catastrofico di una sola
parola-clou:
perché se “Amore” è, nella sua essenza pura, Dio stesso,
Amore è anche l’ispirazione anonima e necessaria della poesia (“quando
/ Amor mi spira, noto” Pg.,
XXIV, 52-3), come pure la passione cortese e carnale
che unisce gli amanti (“Amor, ch’al cor gentil...”).
Direbbe
un nominalista alla Roscellino: ecco i destini abissalmente
diversi, per il cattivo servizio di quel particolare flatus
voci che è un’omonimìa
(mentre i greci, già distinguendo agape
da eros,
almeno certi equivoci pre e post-coniugali li trovavano risolti in
partenza)...
Ma
per Dante cristiano e platonico, che invece crede alla lingua come
coerente conseguenza delle cose, i passaggi tra i vari significati
di Amore si configurano come il progressivo corrompersi d’una
stessa luce purissima, man mano che viene rifratta attraverso i
mille cristalli dell’Essere: così è Amore Dio ma, nella forma
infine corrotta all’estremo di un’entropia nera e senza
ritorno, Amore è anche Satana.
Satana,
si sa, è sempre scimia
Dei, sua imitatio
sciagurata e triviale, rispecchiamento da Dorian Gray rimosso giù
nell’imo del mondo. Pure, il residuo delle ali resta a
ricordarne la matrice angelica: per cui, se è “uccel divino”
l’angelo fulmineo che porta le anime fino alla riva del
Purgatorio, è “malvagio uccello” il diavolo Farfarello (Inf.,
XXII, 96), come appunto è “uccello” non solo la
bianca colomba dello Spirito Santo ma Satana stesso (“tanto
uccello”, Inf., XXXIV, 47),
l'unico, però, che più non possa volare, inchiavaradato nel lago
che le sue stesse sei ali gelano perennemente.
Lo
stessa gerarchia drastica la ritroviamo se pensiamo che “alto
volo” è quello a cui Beatrice prepara Dante (Pd,
XV, 54), ma che “folle volo” fu quello di Ulisse
verso l’isola interdetta
dell’Eden (Inf., XXVI, 125).
E proprio del volo Dante fa esperienza diretta e indimenticabile
per fascino e terrore già nell’Inferno,
sulla groppa di Gerione velenoso e mefitico (Inf.,
XVII).
Tornando
infine al punto di partenza: sarà possibile riconoscere anche nel
catastrofico svolazzo dei lussuriosi almeno il blasone capovolto e
stracciato d’una natura angelica?
I
peccatori che tra “talento” e “ragion” scelsero
forsennatamente i turbini del primo, sono angeli - e dunque
uccelli - atrocemente paradossali: “stornei” dalle ali inette
per l’impeto del “fiato” della tempesta, ora si ubriacano di
capriole e di bestemmie. Un maelström di aria nera e mugghiante
ne fa angeli-foglie morte, lacerti di dolore centrifucati
nell’inferno-inverno che ben altro, del resto, saprà riservare
ai peccator peggiori.