"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 7 maggio 2004

 

"Fondamenta degli Incurabili" di Iosif Brodsky


 

 


16.  Marmi

 

I marmi sono marmi, nient’altro che marmi: cose belle per se stesse, 

da saziare gli occhi e palpare con delizia.

(Pietro Paolo Trompeo, Piazza Margana)

 

Qui, ora, subito: sancire un patto con la Natura petrosa, farsi persino condannare ad metalla pur di poter scippare la bellezza sua, imperiale: e rimodellarne poi le fattezze, nel nostro studio di apprendisti scalpellini, come per uso interno: fabbricare un personalissimo scrigno di consolazioni: agape delle agapi. Perché – ognun lo sappia – le pietre sono talismani di grazia selvatica, scaglie di bellezza mai raggelata nel pallore livido del più vacuo degli artifici, semmai gioiosamente concessa, sempre e sans fin de recevoir- alla devozione nostra fervorosissima.

 

L’inalterabile che s’offre caritatevole ipnotizzando occhi affamati di luce.

Salire perciò, tutti -ora- fin sul Mons Porphyrites; scavarlo passo passo, intascando briciole di peradam pollicini; e sprofondare anche nelle sabbie del deserto, ruminare la ruvidezza scostante di quei bei nomi sibilati da sempre nel vento delle dune: gebel Dokan, uadi Hammamath, uum Sceghilat… Oppure, non meno avventurosamente, limitarsi a camminare sotto la pioggia, lungo vie lastricate di sassi, pedinando i bagliori sottratti alla notte nera come Azef.

 

In una parola, farsi inghiottire dal mal de la pietra, preferire – sempre - la scelta al flusso, perché, in fondo, “la pietra è sempre una scelta” (Fondamenta degli Incurabili).

Qualis artifex pereo, che sia la devise di Venezia? Città rugosa, cariata come dandismo impone, l’acqua rovista inopportuna di tra le sue pieghe, tessendo trame di maculata invadenza; nondimeno il “pizzo verticale delle facciate veneziane è il più bel disegno che il tempo- alias -l'acqua abbia lasciato sulla terra ferma, in qualsiasi parte del globo. 

 

Perché, in fondo, il carattere di quel marmo è la sfrontatezza, e certo suo lasciarsi blandire dallo sguardo umano, liquido e imbibente, risulta poco meno che una svogliata concessione ai nostri languori. Accade infatti d’esser noi, poi, a risentirne; la bellezza sa straziare anche cuori di ghisa: “e ora mi accorgo che c'è nell'aria qualcosa di viscido: la grande chiesa suda. Non soltanto il pavimento, anche il marmo dei muri. La pietra suda. Mi informo, e mi dicono che dipende dal brusco sbalzo di temperatura. Decido che dipende dalla mia presenza, ed esco (ibidem, 38).


 

 

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