Perle
dall’oceano e gemme dalla montagna;
mirra
dalla foresta e oro dalla miniera…
(Epiphany
Hymn, Reginald Heber)
A
Gibbon “lo spettacolo di Venezia procurò alcune ore di stupore
e qualche giorno di disgusto”. Mary McCarthy, non meno
impudentemente, si domandava se fosse davvero incantevole la tanto
decantata laguna: “Perché Venezia, se si tralascia la sua
posizione geografica, dovrebbe essere un luogo incantato?” Che
le acque offrano un abbaglio? Che sia “un caso fortuito, un
gioco di luci.”? “Come
ha potuto creare una città fantastica, bella come un sogno o una
fiaba, un popolo di commercianti vissuto solo per il guadagno?
Questo è l’enigma centrale di Venezia, l’ostacolo che
s’incontra continuamente se si pensa la sua storia e se si
accostano i fatti storici alla realtà che ci sta sotto gli
occhi.” (Mary
McCarthy, Venice Observed, 1956).
La
soluzione -lo insegnavano i cinici - è nel quesito stesso:
“bella come un sogno o una fiaba”. Dov’è mai la
contraddizione “se ci si ferma a pensare quali immagini di
bellezza emergano dalle fiabe”? Certo, se i gioielli crescessero
ancora sugli alberi, sarebbe così agevole credere…
Per coglierne il barbaglio basterebbe divenire un Aladino, o
magari salir fin sulle cime del Monte Analogo, a cercar peradam.
Ma come pretendere tutto ciò dalla Venezia d’oggi? Così
concitata, così pressée,
la velocità delle sue accelerazioni trasformata in sestante
dell’imperdonabile Caduta. Assai più saggio affidarsi agli
incensi d’una maga, scivolare su e giù lungo i canali,
imboccare una calletta dimenticata, mutevole come una donna
nervosa, di quelle dove gli armieri, ai bei tempi superbi,
s’esercitavano a star ritti sulle lance; percorrerla poi tutta,
provando a sbrecciare lo spessore impenetrabile delle brume
d’inchiostro, e finalmente scoprirsi dinanzi a una bottega
sconosciuta, altrimenti invisibile, come aperta lì
all’occorrenza. E che infatti domani sarà già altrove.
Lì
-raccontano i Grimm- la
figlia del mugnaio fila ancora l’oro con l’aiuto dello gnomo
Tremolino. Proprio lì, come nelle conterie
di Murano al tempo della
Dogaressa, la maestria è destrezza da trapezista: numerar i grani
e le sfere, infilandoli lungo un filo sottilissimo: contar
da impiparessa.
Le
“antiche perle veneziane”: impasto screziato, lunga canna
scintillante alitata dal maestro vetraio per esser poi segata in
tronchi visitati dalla Luce: tesoro che per otto secoli riposò
nei forzieri legislativi del Consiglio dei Dieci, gli arcigni
tutori di quel nobile segreto di lavorazione (pena,
l’esposizione mattutina tra le due colonne fatali di piazza San
Marco).
Le
“perle”, volendo anche “gruzzolo scintillante di un avaro,
sorvegliato dalla bestia con gli occhi d’agata bianca e da un
santo, in realtà principe, che ha appena ucciso un
drago.”
Epperò
-oggi- promessa tradita, ché per lo Sposalizio annuale il Mare le
offre più al suo Doge; ‘sendosi infranto, il sonetto di Du
Bellay, sull’ironia d’una profezia spigolosa: …ces
vieux coquz vont épouser la mer/ Dont ils sont le maris et le
Turc l’adultère (Les
Regrets, 133).
Le
“antiche perle” risultano infatti sparse sulla via del
cammello battriano; i mammalucchi di Teheran le espongono nei loro
suk assieme a pendagli di turchesi, su cui è giusto e pio far
incidere l’Aprente. Al mercato di Kabul, in Chicken street, fino
agli anni cinquanta si potevano barattare in cambio di niello o
qualche lega spuria. Le mani dell’Avido Mercante le avevano
scaraventate sino all’Africa atlantica, svilendole in scambi di
mori nigeriani. Ancora in anni recenti, giovani mercanti ne
riscoprivano interi bauli: confuse per modesto artigianato locale,
gli hippies di Tangeri le scartavano chiamandole pietre di
Goulimine. Si trattava –ahiloro- di rarissimi millefiori
del primo Novecento…
Cose che accadono a chi stia lì sempre a impipar…