Un
breve sonno e ci destiamo eterni.
Non
vi sarà più porte. E tu, Morte, morrai.
(J.
DONNE, Holy Sonnets, X)
In
un istante ci si perde, in un istante ci si illumina.
(Libro
tibetano dei morti)
Come
la Queen Mum e d'Annunzio, anche Carlo V amava celebrare le
proprie esequie da vivo, sprofondandosi nel raso violaceo della bara
tutt’avvolto in un sudario, mentre bruciante e disperato fendeva
inerti capitelli il Requiem
Aeternum. Alla stessa maniera
Donne, nel ritratto suo postremo a servire il frontespizio dei Poems
1633.
Morte:
l’inconsumabile lucore dell'Eternità che duella col tarlo putrido
della Caducitas, emblema delle lutulenti putrescenze cui nulla sfugge;
danza macabra, cenotafio, illustrazione ai Trionfi petrarcheschi, e
pietrificata testimonianza del Lamento Inesausto: la melodia del
corrompimento zumbesco d'ogni gloria terrena.
In
Donne la Morte è sempre "ghiotta e ratta", "possente e
orrenda" (Meditazioni teologiche),
condensazione lessicale d’una figura retorica altrove più ampiamente
elaborata; e dai mille allusivi richiami: il teschio trimalcionio, lo
scheletro stagliato prepotentemente nelle coppe di Boscoreale, il
temutissimo Hodie Mihi
Cras Tibi inciso
sul sagrato di tutte le chiese dedicate all'Orazione e alla Morte.
Dunque
senz’altro monito sermonesco, dalle radici petrigne, lacrimose e
moraleggianti; epperò anche riflesso di lucciolii pagani, il magnifico Bacco
e Arianna laurenziani.
In
una lettera tarda si legge: "non vorrei che la morte mi cogliesse
nel sonno. Non vorrei che semplicemente mi ghermisse, dichiarandomi
senz'altro morto, ma che mi pigliasse colla forza e mi
sopraffacesse": inesaudibile invocazione. Si muore sempre solo
inermi, impreparati, nel riverbero opaco dell’alba più livida".