Mirantes,
tacitique arrectis airibus
astant
Mulier
taceat in ecclesia, Paolo di Tarso ne
converrebbe. Del resto anche Baudelaire e Byron: “bisogna ben nutrirle e
ben vestirle […] esse non devono leggere altro che libri di cucina e di
pietà. E non unirle mai alla società.” Pensavano forse a suor Juana Inés
de la Cruz? Eppure, Mary Askew, già bambina, non faceva che stazionare
famelica di sapere nella cattedrale di Lincoln; e al solo scopo di
sfogliare la versione Tyndale della Bibbia Romana, incatenata al leggio
per augusta volontà di Enrico VIII.
Non stupisca un accanimento così sensuale per le
parole di fuoco, negli stessi anni, folle limosinanti
mistica accorrevano a Saint Paul per ascoltare Porter, il decano
che scandiva stentoreo l’Holy Bible, sconvolgendo le accolite di
abbracci ardenti e le lingue di fuoco su su, fin oltre i matronei.
Il fascino del tono predicatorio: quegli imperativi
terrifici uniti a profezie agghiaccianti, meditazioni tetre, tortuosi riti
espiatori, martellanti lamie di peccati a turbare lo “stolto volgo” e
il “popolo donnesco”, irrimediabilmente svenevole, secondo scriveva
Muratori nei Precetti di Filosofia Morale. La predica secentesca: tromba
terrifica a tracimare la navata contrita di terre e visioni penitenziali.
Assicurava
Achillini, assiso sotto i cibori
bolognesi, che in quei dardi giaculatori rare fossero le lambiccature
teologiche: più che altro massiccio esortare, precettistica e catechismo.
Su tutto l’eterno baratro del Memento Mori.
Al Pulpito
- allegoria della vita degli uomini perfetti - come già l’emerito Esdra, minacciosi si avvicendavano
gesuiti, ma anche macilenti cappuccini, dal corpo “confitto e sepolto
dentro a' i panni, che a pena si vede, anzi altro non si vede e non si ode
che una lana agitata che sgrida, un mantello vocale, un cappuccio che
atterrisce, un fuoco che scintilla fuori delle ceneri, una nuvola bigia
che tuona spaventi, una penitenza spirante, un sacco di querele che
riversa addosso i peccatori.”
Fulmini implacabili quei
sermoni, ed eco sacramentale di sconcerti, ché “solo nel duplice regno
le voci si fanno miti e eterne” (Rilke a Orfeo): oratoria muscolosa,
calamitosa e calamitante.
Più raffinata,
snobistica, l’arte di Donne, predicatore a Paul’s Cross, Heidelberg,
Francoforte e l’Aja. Izaak Walton nella sua biografia ricorda: “Mi par
di vederlo eretto sul pulpito dominare non gli orecchi o gli occhi, ma i
cuori tutti, mentre noi ascoltatori c’immaginavamo l’aureo Crisostomo
fosse tornato in vita, e non ci stancavamo mai di ascoltarlo, finché
vedevamo che la sua ora (un’ora soltanto) volgeva alla fine”.
Già Eliot aveva notato
come la cultura di Donne brillasse esclusivamente di argomenti medievali,
affastellamento di conoscenze giuridiche, scientifiche e tomistiche, con
in più tutta la patristica e la teologia negativa greca; eppure il
cardine d’una tal fede appariva senz’altro barocco: una devozione più
psicologica che metafisica: religiosità di sentimento, nutrita di
casistica e bello stile, dall’effetto inesorabilmente pirotecnico.
Sicché dottrine medievali
slegate al loro proprio originario Organon di Pensiero, violentate con
dilettantesca indipendenza, al solo fine di renderle “espedienti
curialeschi, in vista della loro acconcezza al caso singolo: non di
convincimenti metafisici, ma di divertimenti metafisici.” (Praz)
Ecco dunque la ragione
d’un Dryden tanto avverso “agli affetti della metafisica” in luogo
improprio. Ed ecco nel
medesimo caleidoscopio aggrovigliarsi frammenti di scienza e immagini
poetiche: un processo di “osmosi mentale” che scaturisce dal fascino
dell’oscuro e dell’incomunicabile. Il sistema esoterico dantesco,
tarato al millesimo sullo gnomone del mondo, con Donne trasformato in
capriccio e Wunderkammer rodolfina. Voracità conoscitiva, bizzarramente
irregolare, con cui volteggiare tra testi alchemici, magici, astronomici;
e i nomi sepolti di Adriano Zaravia, Didacus de Simancha, Escalante,
Stelliola….