E
Zenone aveva ragione quando dice
che
la vera bellezza è nella voce.
Il
resto è ciarpa, piaga e cicatrice,
e
polvere spirante. Il resto è croce
(Patrizia
Valduga, Seconda
Centuria)
Che "prodigioso, magico
recitarsi addosso", la parola che non è più
suono o significato, ma soltanto Insensatezza di
ogni dire, la promiscua esitazione valériana tra
suono e senso. Una Macchina Attoriale, polimorfismo
vocale (Manganaro), un ventaglio dinamico inaudito
che richiama alla memoria "i megafoni"
greci tanto rimpianti da Baudelaire; voce scavata e
muscolosa, badilate di gutturali, soffi vellutati; un dire "monotòno
nell'etimo, ma all'interno estremamente ricco di
timbri" (Gassman); sibilo fragoroso che si
divora da sé nella cascata di acuti e bassi
continui, "volontà cieca", secondo
Schopenahuer, e perciò macellata in frammezzi e
segmentazioni del respiro. Purezza melodica,
musicale e mai musicistica, ché stavolta è la Voce
orchestrale e orchestrata dal di dentro, siccome un
Parlato d'opera, a farsi poesia; non già il
contrario. Il testo è già salma irricomposta,
sfilacciato rottame del teatro di regia. Rimane solo
l'Immemoriale.
Manfred, "oratorio
vaticinante", cinque atti da Lord Byron,
musiche di Schumann: l'ultima delle cospirazioni
approntate con la complicità di Giorgio il Manga.
Carmelo le Bien, folle d'amore per questo tradimento
traduttorio, evocazione e adorcismo al contempo,
chiese al Maestro Siciliani una sola notte per
decidere: gli era stato proposto un Peer Gynt
cantato a Massenzio (Ibsen-Grieg) e quel Byron,
mormorato nell'eco della Jungfrau. Si trattava una
buona volta per tutte di “strappare anche il
teatro musicale alla volgarità del visivo, alla
sconcezza della chiacchiera, l’operaccia
zeffirellata”. Non s'ebbero esitazioni: si farà
il Manfred di
Manganelli. Il culmine della collaborazione. Ma
già con le Interviste Impossibili,
millenovecentosettantatre, s'era discesi assieme
nella notte allucinatoria della Radiofonia:
"visione accecata", agognato buio, la
parola finalmente musicata di là d'ogni
inqualificabile esercizio retorico, e resa
alfine melodiosamente silente; un parlare coi morti,
che é già tributo devozionale al famoso oracolo
zenoniano; e soprattutto completo naufragare nei
veli impalpabili della scena che non è, tra spettri riottosi, sciabordii assordanti e manrovesci di
fantasmagorie timbriche. Rabbi Bunam, nei Pirqé
Avot, da sempre ti vede e insegna: c'è
qualcosa che non puoi trovare in alcun luogo, eppure
esiste il luogo in cui la puoi trovare.
In un luogo imprecisato.