"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 3 marzo  2003


 

 

Racconti di Kafka:

 

6. Lettere a Felice

 

E’ il più grande “libro” che abbiamo di Kafka. Il fatto che si tratti di un epistolario intimo che l’autore avrebbe voluto veder distrutto, dovrebbe farci sentire quanto meno a disagio, ma tant’è.  Kafka si nutrì di epistolari e diari altrui con bulimica voluttà. E ora noi con lui.

Naturalmente quelle a Felice sono lettere “bellissime”. Anche diabolicamente. Kafka è il più grande seduttore epistolare a cui si possa pensare. Nei primi quattro mesi, la subissò: 400 pagine in 60 lettere.

Il “vampiro” Franz K. (Deleuze e Guattari, Per una letteratura minore”) individua una vittima, Felice Bauer, da irretire con filamenti di parole micidiali. Per questo Orfeo catastrofico, conquistare e lasciare coincidono: una volta presa (chi non lo sarebbe nel vortice di Kafka?) nella malìa d’una attesa d’amore perfettamente recitata dal grafomane, la donna sarà lasciata a consumarsi al margine invalicabile della scrittura: l’anima del mittente si farà amare senza errore: quel tanto che le permetta di esporsi infinitamente, attraverso di lei, a se stessa.

All’eco basta un muro. Felice del muro ha qualcosa già fisicamente: a lei parla, estenuata e tirannica, amletica e feroce, astratta e prescrittiva, la voce sola di un funambolo bisognoso di pratica. La camera, luogo delizioso di giochi e torture, sarà chiamata “fidanzamento”.

L’anima di Franz K. ha nelle lettere il suo teatro: lì trionfa come qualcosa che può finalmente esporsi e negarsi allo stesso tempo: uno stagno colloso, una trappola di sabbie mobili in cui si abbandona la sedotta una volta che la si è portata a quel punto, all’euforia di una complicità in realtà appena fantasmagorica. - “Lì” Felice restò impigliata più di cinque anni: nel luogo dove ogni passo, avanti o indietro che fosse stato, avrebbe giusto aggravato il disastro.

Che Franz K. sia stato vittima dei suoi stessi inganni, avrà reso appena perfetto il delitto. Ma è chiaro il tempo, nell’epistolario, in cui il gioco gli si rivelò: “Sono un bugiardo, non posso altrimenti serbare l’equilibrio, la mia barca è troppo fragile”.

Il sublime sarà mentire dicendo la verità: quando ad esempio le promette “una vita claustrale a fianco di un uomo indispettito, malinconico, taciturno, scontento, malaticcio, il quale (e ti sembrerà follia) è legato con catene invisibili a un’invisibile letteratura e, quando gli si va vicino, si mette a gridare perché, a sentire lui, si palpa quella catena” (22 agosto 1913).

Resta il fatto che gli anni di Felice, anche grazie al muro-Felice, sono quelli in cui Kafka nasce a se stesso: dal 1912 al 1917 scrive “Il verdetto”,  “La Metamorfosi”, “Il disperso”, “Il processo”, “Nella colonia penale”, “Sciacalli e arabi”, “Una relazione all’accademia”, oltre naturalmente a un profluvio di lettere e diari.

L’ultimo anno fu anche quello del primo sbocco di sangue, salutato come un amico e un sollievo, e come il grimaldello per liberarsi dalla prigione che era diventata Felice.


 

 

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