All’eco
basta un muro. Felice del muro ha qualcosa già fisicamente: a lei
parla, estenuata e tirannica, amletica e feroce, astratta e
prescrittiva, la voce sola di un funambolo bisognoso di pratica. La
camera, luogo delizioso di giochi e torture, sarà chiamata
“fidanzamento”.
L’anima
di Franz K. ha nelle lettere il suo teatro: lì trionfa come qualcosa
che può finalmente esporsi e negarsi allo stesso tempo: uno stagno
colloso, una trappola di sabbie mobili in cui si abbandona la sedotta
una volta che la si è portata a quel
punto, all’euforia di una complicità
in realtà appena fantasmagorica. - “Lì” Felice restò impigliata
più di cinque anni: nel luogo dove ogni passo, avanti o indietro che
fosse stato, avrebbe giusto aggravato il disastro.
Che
Franz K. sia stato vittima dei suoi stessi inganni, avrà reso appena
perfetto il delitto. Ma è chiaro il tempo, nell’epistolario, in cui
il gioco gli si rivelò: “Sono un bugiardo, non posso altrimenti
serbare l’equilibrio, la mia barca è troppo fragile”.
Il
sublime sarà mentire dicendo la verità: quando ad esempio le promette
“una vita claustrale a fianco di un uomo indispettito, malinconico,
taciturno, scontento, malaticcio, il quale (e ti sembrerà follia) è
legato con catene invisibili a un’invisibile letteratura e, quando gli
si va vicino, si mette a gridare perché, a sentire lui, si palpa quella
catena” (22 agosto 1913).
Resta
il fatto che gli anni di Felice, anche grazie al muro-Felice, sono
quelli in cui Kafka nasce a se stesso: dal 1912 al 1917 scrive “Il
verdetto”, “La
Metamorfosi”, “Il disperso”, “Il processo”, “Nella colonia
penale”, “Sciacalli e arabi”, “Una relazione all’accademia”,
oltre naturalmente a un profluvio di lettere e diari.
L’ultimo
anno fu anche quello del primo sbocco di sangue, salutato come un amico
e un sollievo, e come il grimaldello per liberarsi dalla prigione che
era diventata Felice.